Meglio una buona cop(p)ia che l’originale: Copia conforme di A. Kiarostami PDF 
Elisa Mandelli   

“Let’s talk about something else”. Parliamo di qualcos’altro. È questa frase, pronunciata da Juliet Binoche (nel film semplicemente Elle, Lei) ad aprire la sequenza che, posta nel cuore dell’ultimo film di Abbas Kiarostami, ne devia il percorso, ne frantuma la linearità, ne moltiplica i sentieri e la ricchezza di senso. Prima, l’incontro tra due sconosciuti: un critico d’arte inglese, in Italia per presentare il suo nuovo libro, e un’antiquaria francese che vive da anni in Toscana. Dopo, con una spiazzante frattura, quella stessa domenica, quella stessa coppia vive il giorno del quindicesimo anniversario di matrimonio, confrontandosi con l’affievolirsi dei sentimenti, col rancore e i rimproveri reciproci. Prima, un denso dialogo sull’arte, sull’originale e sulla copia, che si dipana durante un tragitto in macchina tipicamente kiarostamiano, lungo un itinerario a zig-zag tra i cipressi che punteggiano il magnifico paesaggio. Dopo, una passeggiata quasi surreale in un borgo che sembra chiudersi su se stesso, un terreno limitato in cui i personaggi si muovono senza una vera e propria direzione, uno sfondo circoscritto in cui gli incontri si ripetono, le storie si raddoppiano, le temporalità si sovrappongono.

Decisamente complesso, a tratti surreale, per alcuni versi destabilizzante, Copia conforme segna il ritorno di Abbas Kiarostami al cinema di finzione dopo anni di film documentari e sperimentali (10 on Ten, Abc Africa, fino al recente Shirin), ma anche di fotografia, poesia e messa in scena teatrale ed operistica. Girando al di fuori del proprio paese, fatto più unico che raro, il regista iraniano si allontana dalle scelte consuete anche in materia di interpreti: non più gente comune ma veri e propri attori cinematografici (Juliette Binoche, splendida) o teatrali (il baritono inglese William Shimell, al suo esordio cinematografico). Eppure quest’ultimo tassello dell’opera kiarostamiana è profondamente coerente con l’insieme della sua produzione, la quale non smette di ruotare intorno ad una serie di problemi, temi e figure fondanti, tanto ricorrenti quanto ogni volta capaci di assumere un respiro del tutto nuovo. Così l’apparente allontanamento dall’universo e dagli scenari abituali, non è per l’autore  che un modo per tornare sulle medesime questioni, su una sorta di tenace idea fissa (1) che sostanzia nel profondo ogni pratica artistica in cui si cimenta: il rapporto del cinema, e più in generale dell’arte, con la realtà e, soprattutto, il ruolo cruciale dello sguardo. Letti in questa prospettiva i film di Kiarostami sembrano davvero germogliare l’uno dentro l’altro e le deviazioni, le svolte, le variazioni che si aprono al loro interno non sono che le sfumature di una più ampia e coerente riflessione. Nello stesso modo quella frattura che sembra spezzare Copia conforme in due parti distinte e quasi inconciliabili è in fondo solo la curva di una spirale che finisce per ritornare su se stessa, per riproporre ancora una volta, seppur da una diversa prospettiva, gli stessi nodi problematici. Il trucco sta, per lo spettatore, nell’abbandonare la logica univoca e lineare, nell’assumere in prima persona l’andamento erratico tipico dei personaggi, nel farsi conquistare dal piacere della ripetizione, della ripresa e della variazione dei motivi, esattamente come in musica e in poesia, ma anche come nella più alta tradizione della cultura orientale.

“Meglio una buona copia che l’originale”, recita il sottotitolo del libro di James Miller (William Shimell), il quale attribuisce al suo editore la responsabilità della scelta di un tono tanto provocatorio. L’autore non rinnega però la paternità del titolo, che, identico a quello del film, è leggibile sulla copertina del volume esposto in bella vista nell’inquadratura di apertura. Il quadro è fisso, frontale: su un tavolo sono disposti un microfono e una copia del libro, mentre un brusio fuori campo rimanda al riempirsi della stanza. Eppure questa semplicità quasi geometrica non impedisce che sullo schermo si apra come una breccia, una falla che lascia intravedere lo scarto tra realtà e rappresentazione. Se apparentemente, infatti, non abbiamo nient’altro che una scena realistica al limite della banalità, a ben guardare siamo di fronte ad una vera e propria mise en abyme: l’opera letteraria raddoppia quella cinematografica, come prolungando la sequenza dei titoli nelle prime battute del testo, l’ingresso del pubblico della conferenza replica l’entrata dello spettatore nella sala del cinema. Fin dall’inizio, dunque, convivono due aspetti sempre inscindibili nel cinema di Kiarostami: quello della storia raccontata e quello, autoriflessivo, che concerne il farsi stesso del testo. Fin dall’inizio, inoltre, assistiamo alle prime mosse di un gioco che non smetterà di ripetersi per tutta l’opera, a tutti i livelli: quello della copia e dell’originale, della presentazione di un motivo e del suo inevitabile e repentino sdoppiamento. Fin dall’inizio, infine, noi spettatori non abbiamo scelta: nel suo chiamarci in causa in prima persona il film non può, per parafrasare Serge Daney, non riguardarci.

Avviatasi dunque con una piccola scossa, la narrazione segue il primo incontro dello studioso d’arte freddo e distaccato e della gallerista emotiva ed impacciata, attratta dalle sue teorie non meno che dal suo fascino. In un ondivago errare tra i borghi e i colli toscani, all’interno dell’universo chiuso dell’abitacolo di un'automobile (figura tra le più ricorrenti nel cinema del regista iraniano), i due discutono dell’arte, della vita, della copia e dell’originale, della semplicità dell’animo e di quella, paradossalmente complessa, dello sguardo. La vettura diventa un involucro protettivo che circonda la coppia e crea l’ambiente ideale per dialogare, per affrontarsi e fronteggiarsi al di fuori dello schema del campo/controcampo, potenzialmente più pericoloso nel porre i soggetti direttamente faccia a faccia, senza ripari. Seduti l’uno accanto all’altra, l’uomo e la donna non si guardano che di tanto in tanto, distratti e quasi protetti dal fascino dei declivi toscani che sfilano fuori campo, ma che vediamo riflettersi sul parabrezza dell’auto fin quasi a coprirne i volti. Se il paesaggio è incluso nel quadro attraverso giochi di sovrimpressioni, la frontiera tra interno ed esterno, tra l’intimità dei personaggi e il mondo che li circonda, diventa porosa, permeabile, svanisce fino a dissolversi. Il dentro e il fuori si condensano in un’unica immagine, l’originale (il mondo naturale) si confonde con la copia (il suo riflesso), ma non per questo è privo di valore e bellezza.

Così come nelle soluzioni di messa in scena, anche nella conversazione tra i due protagonisti è in gioco la questione del rapporto tra copia e originale, dunque tra realtà e finzione, tra mondo e sua rappresentazione. Se il cinema non è che una copia del reale, nessun realismo che non mostri la corda della propria costruzione artificiosa è possibile. Ma nello stesso tempo, come sostiene il protagonista, la copia (e con essa il cinema) ritrova dignità in virtù della propria potenza rivelatrice, della sua capacità di avvicinare all’opera d’arte e al suo senso più profondo. Come afferma lo stesso Kiarostami in un’intervista per la televisione francese, “che sia documentario o finzione, è tutta una grande menzogna che raccontiamo allo spettatore. [...] Allineiamo una serie di menzogne per arrivare ad una verità più grande. Delle menzogne non reali, ma vere in qualche sorta” (2). L’immediatezza della visione non si conquista se non assumendo una distanza, il reale non si racconta se non accettandone l’intrinseca dose di finzione. Non è una questione di gerarchia, quanto piuttosto di relativizzazione dei confini: che ciò che abbiamo di fronte sia originale o copia, a contare davvero è lo sguardo che vi posiamo. Nelle opere di Kiarostami è dunque lo sguardo dei personaggi sul mondo, sostenuto da una loro intima convinzione (spesso piuttosto un’ossessione), che può dare corpo alla realtà, confondendo il confine tra verità e illusione: in Close up Sabzian, persuaso di essere il regista afgano Makhmalbaf, diventa veramente tale agli occhi della famiglia borghese cui chiede di recitare nel proprio film, così come la visione paranoica di Hossein in Attraverso gli ulivi piega il reale alle proprie fissazioni (la certezza di essere ricambiato dall’amata, per quanto ella rimanga impassibile ai suoi richiami). Infine, esattamente come per i personaggi, anche per lo spettatore è questione di sguardo: “ciascun individuo, guardando il film, crea il suo proprio mondo. [...] Il cinema non ci informa di un solo e unico mondo, ma di molti. Non ci parla di una realtà, ma di un’infinità di realtà”. Acquisizione non da poco, che pone le premesse per il détour che, con la stupefacente intensità di un fulmine a ciel sereno, avvia la seconda parte del film.

Tutto succede all’improvviso. Quando, arrivati a Lucignano, i protagonisti entrano in una trattoria per prendere un caffè, il tono della conversazione cambia tanto repentinamente quanto naturalmente. Al sicuro, in questa nuova atmosfera di intimità, lo scrittore racconta dell’origine della sua opera, di come l’ispirazione gli sia venuta guardando una donna che per strada non camminava mai accanto a suo figlio pur non cessando di controllare, apprensiva, che egli la seguisse. “Non me la passavo molto bene in quel periodo”: è la potenza di una battuta che la donna quasi sussurra a far barcollare, scuotendola alle fondamenta, la narrazione. Nel venire alla luce di un passato comune che ancora non sapevano di possedere, il legame tra i due si ridefinisce, acquista una nuova profondità, e da questo momento in poi non cesserà di cambiare, sempre più intimamente, in un intricato gioco di ruoli. La forza della parola, di una frase che da sola è riuscita a cambiare le carte in tavola, non si può tuttavia disgiungere da quella dello sguardo: i momenti chiave sono articolati intorno alla visione dei personaggi, di cui le battute non restituiscono che a posteriori i risultati, esplicitandone il senso. La vista coglie ciò che si cela nel cuore del reale, il discorso lo ratifica e gli dona concretezza: mentre James esce per rispondere al telefono, la padrona della trattoria confida alla donna di sapere che si tratta di un buon marito, perché, in definitiva, si vede. Questo sguardo, esterno ma in fondo partecipe, apre una breccia: per un attimo il mondo vacilla, tutte le possibilità si aprono, e la protagonista coglie al volo l’inaspettata offerta di una deviazione. Non smentisce la donna, indossando con stupefacente naturalità il ruolo di moglie trascurata: lamenta le assenze del marito, il suo egoismo, il suo concentrarsi unicamente sul lavoro. Nasce un dialogo dall'intensità straordinaria, in cui la voce della Binoche è resa incerta tanto dall’utilizzo dell’italiano, lingua per lei straniera (3), quanto da un’emozione che non ha niente di finto, ma che brilla intensa e potente nei suoi occhi luccicanti di lacrime. Un’ultima occhiata e un’ultima battuta chiudono il cerchio: quelle dell’uomo, il quale, messo a conoscenza del malinteso, constata che in fondo lui e la donna formano una bella coppia. Da questo momento in poi, obbedendo alla forza degli sguardi, la realtà vi si piega. Così, all’uscita dalla trattoria, i due diventano letteralmente una coppia sposata da quindici anni che si confronta, sgomenta, con l’affievolirsi dei sentimenti sotto i colpi delle reciproche incomprensioni. Nel giro di pochi minuti niente è cambiato, tutto è diverso.

Se dunque è tutta una questione di prospettiva, ogni sguardo diventa una questione cruciale. O meglio, una questione morale. In questo nodo decisivo si esplicita il legame più autentico di Copia conforme con l’opera di Rossellini, che va ben oltre il richiamo a Viaggio in Italia e al tragitto lungo la penisola compiuto dalla coppia di sposi formata da Ingrid Bergman e George Sanders. Percepibile in tutta la produzione di Kiarostami, l’influsso del regista italiano riguarda, accanto al recupero di alcune soluzioni formali, il modo di intendere il cinema e i suoi rapporti con la realtà da una parte e con lo spettatore dall’altra. Ciò che accomuna i due grandi maestri è la convinzione che nessuno sguardo sia indifferente e che in esso risieda la chiave per comprendere le cose: la convinzione dunque che l’estetica sia sempre e comunque una questione di etica. Per ritornare a Daney, tutto il cinema di Kiarostami è un cinema che ci riguarda, che, in un gioco di specchi, ci aiuta a confrontarci con noi stessi, con la nostra vita.

L’incrociarsi degli sguardi ha dunque aperto nel tessuto della narrazione come degli squarci, a partire dai quali tutte le alternative possono farsi spazio. Per raccontare una storia non è più necessario rinunciare a tutte le altre, in ogni racconto si affacciano tutti i racconti possibili, di cui nessuno è più “vero” degli altri. Ai ruoli interpretati dagli attori si sovrappongono quelli “indossati” dai personaggi, alla coppia dei protagonisti si sommano le altre coppie che essi incrociano lungo il cammino. Come attraverso un prisma, le immagini dei matrimoni si moltiplicano fin quasi alla vertigine, proponendo una sfilata di variazioni sul tema della (in)felicità coniugale. In questo affollarsi di copie di un originale di cui si sono perse ormai le tracce, lo spazio sembra stringersi intorno ai personaggi, circoscrivendo il loro costante movimento in un terreno in cui gli incontri finiscono per ripetersi: gli sposini allegri e amichevoli, gli anziani turisti con la loro saggezza un po’ saccente e artificiosa. Al contrario, la dimensione temporale si apre ad un’inesauribile profondità, che ricorda uno dei testi delle Finzioni di Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano. Nel romanzo di cui ci parla il racconto (che, come avviene in Copia conforme, ne replica il titolo) la biforcazione è “nel tempo, non nello spazio”: se in qualsiasi narrazione, “di fronte a diverse alternative ci si decide per una e si eliminano le altre”, in questo caso “si decide - simultaneamente - per tutte. Si creano così, diversi futuri, diversi tempi, che a loro volta proliferano e si biforcano” (4).  Insomma un romanzo sul tempo, o piuttosto su “infinite serie di tempo, in una rete crescente e vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli” (5). Certo, il discorso kiarostamiano è altro da quello dello scrittore argentino, tuttavia la tentazione di accostare i due testi rimane forte. Non solo per l’affinità di tono, sospeso tra la precisione realistica e l’atmosfera surreale, ma anche perché ci invita a penetrare più a fondo la riflessione sul tempo condotto dal regista iraniano. Aprendosi sotto il segno di una fine annunciata (il fatidico treno delle nove), il film si dipana in un’(apparente) unità di tempo: il pomeriggio di una domenica, già di per sé attraversato da un senso di sospensione, di messa tra parentesi della routine quotidiana. In esso si aprono e si confondono le altre dimensioni: il passato (i passati, suscettibili di modificarsi ad ogni cambiamento del sapere, e del vedere, dei personaggi), il presente, un giorno in cui la coppia fa esperienza di tutta una vita, e il futuro, già teso verso una meta, ma libero di imboccare qualsiasi altra strada. Nel vortice della loro compresenza, qualsiasi gerarchia è annullata, non in nome dell’irrealtà, ma di un realismo più vero e più profondo. Così una piacevole vertigine coglie lo spettatore quando, nella camera dall’albergo in cui gli sposi hanno (o meglio, ricordano di aver) trascorso la notte di nozze, la donna dice di sentire il profumo di lui sul cuscino, non ancora svanito dopo quindici anni. È certamente impossibile, eppure niente appare così vero, reale, concreto.

Poco dopo, il congedo dal mondo narrato segna la consapevole e definitiva rinuncia del cineasta a tracciare un percorso univoco e definito: la storia rimane in sospeso e, se anche i personaggi ne conoscono la fine, questa sembra non riguardare più lo spettatore. L’enigma, semplicemente, si dissolve, in un’ultima inquadratura che ci mette di fronte al volto turbato di James. Dietro di lui la finestra è aperta, il cinguettare degli uccelli sembra suggerire la possibilità di volare via, il rintocco delle campane ricorda l’implacabile trascorrere del tempo. Eppure la macchina da presa non lo segue uscire di campo: non più interessata a ciò che faranno i suoi eroi, essa rimane fissa di fronte al paesaggio incorniciato dalla finestra, tesa nell’ascolto dei suoni che lo animano. Come nella prima inquadratura, di nuovo un piano fisso, vuoto, di nuovo un fuori campo sonoro. Di nuovo, infilandosi tra le pieghe di questa apparente essenzialità, il tempo scivola via, corre lineare lungo un sentiero già tracciato, ma nello stesso tempo ritorna, si avvinghia su se stesso, disegna delle spirali che aprono inaspettate vie di fuga.

Note:
(1) Dell’idea fissa nel cinema di Kiarostami parla Alain Bergala in Abbas Kiarostami, Cahiers du cinéma/Les Petits Cahiers, Parigi, 2004.
(2) Cinéma de notre temps : Abbas Kiarostami, vérités et songes (Jean-Pierre Limosin, 1994, 52')
(3) Nell’edizione italiana, imperdonabilmente mutilata dal doppiaggio, non è possibile cogliere il raffinatissimo gioco fra le tre lingue, inglese, francese e italiano, che i personaggi alternano nei loro dialoghi e che, significativamente, solo il personaggio di Juliette Binoche padroneggia completamente.
(4) Jorge Luis Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano, in Finzioni, Einaudi, Torino, 2004.
(5) Ibidem.

 


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