Riesumare i morti: la rabbia di Pasolini quaranticinque anni dopo PDF 
Umberto Ledda   

ImageRiesumare i morti

Riesumare i morti è un lavoro crudele. Per i morti innanzitutto, perchè il riportare alla luce la dissoluzione attuata dal tempo, gli sfregi della decomposizione, è in qualche modo un affronto alla lotta vitale del riesumato. Ed è crudele in secondo luogo per i discendenti, che nella vista del corpo morto di colui che li ha generati possono avvertire quanto l'istintiva idealizzazione del passato sia in sostanza un'illusione: la realtà di una povera carcassa consumata corrompe la perfezione della memoria. Per questi motivi, serve una buona ragione per disseppellire un cadavere. Occorre garantirgli un servizio che sia superiore alla semplice constatazione del male e dell'orrore che lo scorrere degli anni ha provocato sulla sua figura. Perchè il corpo riesumato ha senso in quanto salma, e non in quanto memoria di vita: quando si disseppellisce un corpo, il corpo stesso deve avere un motivo e un significato. Fare uscire un film, recuperandolo per le sale in una sorta di edizione critica, è diverso dal rivedere un vecchio film. Ci passa la stessa distanza che passa fra il porre fiori su una tomba, per immaginare attraverso una fotografia la vita di un uomo, e scoperchiarla per analizzarne la dissoluzione. Recuperare La rabbia dopo cinquant'anni, ricomponendolo, non significa dargli nuova vita e nemmeno ritornare sul pensiero pasoliniano, ma vuol dire dissotterrare la carcassa di questo pensiero: occorre che il gesto abbia motivazioni precise per non scivolare nell'orrore gratuito della filologia fine a se stessa.

Necrosi dell'attualità

ImageDetto questo, è a prima vista difficile trovare nella riesumazione de La rabbia ragioni che non siano legate, appunto, ad un perfezionismo filologico motivato solamente da se stesso. In altre parole: a prima vista si fa fatica in quest'operazione a trovare un motivo, un motivo forte, vitale, una necessità di rivedere La rabbia, oggi. Accade solo in parte per motivi legati ad un'attualità vecchia di quarantacinque anni. Certo, il fatto che gli avvenimenti degni di nota nel 1963 siano oggi sbiaditi, alcuni dimenticati, altri appianati dal costante procedere dei fatti, in qualche modo ha la sua importanza. Ma è soprattutto la mentalità del tempo ad essersi sbiadita. Storicamente, il film di Pasolini si situa in una bolla di slancio e relativo ottimismo in una seconda parte di secolo che poi avrebbe evidenziato sempre di più le sue caratteristiche di rapido smottamento epocale. Era il periodo in cui l'entusiasmo di un tempo che sembrava procedere velocemente, di una velocità gonfia di promesse, prevaleva sul terrore che queste promesse potessero essere disattese. Il timore della bomba era in parte mitigato da un benessere ben più presente e reale. Come una società che ha appena scoperto macchine che permettono la velocità, e si lancia ai limiti estremi permessi da questa velocità, senza ancora pensare troppo lucidamente a cosa può accadere in caso di un minimo intoppo. Dopo sarebbero venuti gli anni Settanta e sarebbe stato chiaro il limite feroce di questa velocità, sarebbe stato fin troppo lampante che ogni slancio propulsivo non è infinito, che ogni vantaggio si paga con squilibri e odi, che la corsa troppo rapida produce sfinimento e paura. Insieme con le crisi petrolifere e il degradarsi delle ideologie venne la disillusione, ma la corsa ormai era lanciata, e la velocità del progresso verso il futuro iniziò ad essere percepita in maniera più tridimensionale: nacque la nostra società, si sgretolarono le illusioni più facili, in un bizzarro circolo vizioso da macchina impazzita che porta all'oggi. Il 1963 visto oggi crea dunque due sensazioni. La prima è una sensazione di tenera inverosimiglianza: conosciamo troppo ciò che accadde dopo per esaltarci di quella febbrile esaltazione, sbandierata dalla nascente ubiquità delle televisioni e dal moltiplicarsi degli stimoli mediatici. La seconda è la percezione di un diffuso senso di inquietudine, allora latente e minimizzato, ora fin troppo chiaro nelle sue motivazioni: la scontentezza, l'angoscia, la paura a cui La rabbia provano a rispondere.

ImageCol senno di poi

Pasolini non condivideva l'illusorio culto del progresso che la cultura borghese diffondeva. E pur essendo sinceramente comunista, faticava ad accettare anche il dogmatismo progressista del marxismo, che condivideva la medesima tensione ottimistica, seppure in opposte modalità. Aveva ragione a dubitare, e questo lo avvicina alla nostra sensibilità di sospetto, disillusione e paranoia. Il fatto è che Pasolini rispondeva a domande del tempo, e sia le domande che le risposte erano comunque ispirate dal suo marxismo austero e sospettoso. Nonostante la sua lucidità, quando si risponde a domande sbagliate difficilmente le risposte son giuste. Ne La rabbia, il riferimento al futuro è costante: Pasolini cerca evidentemente di parlare alle generazioni che seguiranno. Ma la sua analisi (sia quella esplicita del commento, sia quella strutturale del montaggio, che scompone e ricompone, creatore di senso) non arriva a noi, semplicemente perchè il futuro non è quello che poteva essere immaginato: l'impostazione ideologica lo porta ad una semplificazione eccessiva delle dinamiche in gioco, e quindi a non comprendere quali saranno le tendenze determinanti, le forze propulsive dello sviluppo storico e sociale. Il suo dare per scontata la compattezza ideologica della borghesia lo induce a sottovalutare che sarà proprio da una serie di crolli psicologici della classe dominante a scaturire la società del futuro. Pasolini crede di lottare contro un nemico agguerrito e compatto: il ricco, il borghese, padrone del progresso, l'autista della macchina, l'affamatore del popolo. Ancora non sa che la macchina impazzirà per conto suo, e il futuro non scaturirà dalla lotta di classe ma dal progressivo sbandare di una borghesia incapace di reggere la tensione, e il benessere, accumulati. Allo stesso modo, Pasolini si scagliava furentemente contro lo spettacolo e l'intrattenimento (voce del buonumore del padrone) come se fosse ancora un qualcosa da battere, un'imposizione del potere da spazzare via: oggi sappiamo come l'onnipresenza delle immagini sia – e già era negli anni Sessanta – una marca distintiva del nostro tempo, una necessità ontologica da addomesticare piuttosto, ma non da distruggere, perchè ormai di immagini e finzioni siamo fatti. Siamo diventati più simili alle immagini riprodotte che ci rappresentano da non poter esistere una volta distrutta la loro proliferazione. Pur essendo già pienamente consapevole del raffinato lavoro mistificante attuato dai controllori delle immagini e delle rappresentazioni, sottovalutava profondamente il ruolo che le immagini avrebbero avuto nel tempo a seguire: non più semplice strumento in mano al potere, ma natura stessa del potere. Il suo montare immagini disimpegnate con frammenti di morte e violenza appare oggi puerile, superficiale, eccessivamente semplificante. È facile, vedendo queste e altre riflessioni contenute ne La rabbia, con un ovvio e facile senno di poi, limitarsi ad osservare quanto poco rimanga di un tentativo coraggioso di riflettere sul proprio tempo e sul proprio futuro. La rabbia rivela quanto difficile sia vedere il futuro, e che il futuro non si vede con la logica e con la lucidità. Tanto da rendere il saggio filmato di Pasolini un povero documento sradicato dal suo tempo, gettato in un futuro dove non può stare e che suo malgrado lo ridicolizza. Invece di un omaggio a Pasolini, sembra un attacco: un mostrare il cadavere macchiato dal tempo di un Grande della sua epoca, ad avvertire la gente che anche chi è grande è mortale e non sopravvive alla sua fine biologica.

 La rabbia

ImageEppure. Il tempo ha in gran parte screditato le analisi, le ha minimizzate, le ha smontate. La lettera del discorso pasoliniano è invecchiata, morta, sepolta. Ma è anche vero che questo discorso è generato da una rabbia autentica, è un tentativo di razionalizzare, di portare in forma insieme filosofica, logica e poetica, un sentore pulsionale, un furore cieco, un'insoddisfazione oscura che necessita parole per esistere. Queste parole, l'analisi, sono solo una reazione ad uno stato di inquietudine, di furore. E questo furore era il primo segno di qualcosa che avrebbe portato a noi. Prendere alla lettera La rabbia, nel 2008, è volerle davvero male. Meglio osservare che cosa era in fondo, ma faceva di tutto per non sembrare: uno sfogo senza capo né coda, una risposta ad una domanda che non si poteva afferrare. Meglio, quindi, non concentrarsi sulle risposte, ma sulla domanda.

Oltre la lotta di classe

Prima di tutto, quando Pasolini parla di lotta di classe parla insieme anche di molte altre cose, attraverso un marxismo relativo e personalissimo: ciò che letteralmente si percepisce come uno scontro fra proletariato e borghesia è in sostanza un dualismo universale, quello fra verità e mistificazione, fra la materia tangibile (la terra) e l'astrazione (il capitale). Popolo e borghesia sono due significanti in una lotta che non si ferma al livello economico, politico, storico, ma va in profondità in quello etico e filosofico. Il comunismo pasoliniano, mai abdicato nonostante i comunisti non fossero granchè d'accordo, era sostanzialmente un umanesimo antiprogressista, un desiderio di recuperare l'anima antica degli uomini, il suo sol dell'avvenire era un ritorno alla terra. Il suo feroce attacco alla borghesia è soprattutto contro una mentalità che ha eliminato ogni rapporto con la madre terra, con le proprie radici, spostando il centro dell'esistenza dalla fisicità all'astrazione, e chiamando progresso questa perdita di contatto con se stessi. Quando il progresso diventa lo status quo, strumento del potere per la schiavitù degli esseri umani, il ritorno al passato è il solo modo per attuare una rivoluzione. Osservati da questo punto di vista, gli elementi in gioco assumono valenze meno deteriorabili e meno legate all'ideologia e all'attualità, e si può allora prestare poca fede alla terminologia usata, concentrandosi su ciò che giace al di sotto delle parole. Pasolini analizza un mondo che sta sempre più rapidamente abdicando alla propria materialità rifugiandosi nell'astrazione, un popolo che si vede privato di ciò che è reale, sostituito per mano del potere con un compenso immateriale (il capitale, l'intrattenimento) che lo snatura in quanto essere umano, che lo priva di ciò che è, un figlio della terra. Da qui l'incubo della preistoria del dopobomba, pronta a calare su un mondo che ha perso la memoria della classicità, dove l'industria e il capitale, con i suoi  astratti e mistificanti spostamenti di denaro fantasma, ha vinto.

ImageRequiem

In secondo luogo, è l'atmosfera generale che colpisce ancora ne La rabbia. È un'atmosfera che si ritrova in molti del film del regista, ed è una costante, diffusa, sincera sensazione di perdita. Ed è bello notare come i momenti in cui è maggiore questa sensazione di perdita siano due momenti di poesia che ben poco hanno a che fare con l'abituale austerità pasoliniana. Pasolini piange la morte del Cristo nell'immersione del Cristo degli abissi, affogato in nome della volontà di spettacolo di una borghesia che ha a tal punto perso il senso del sacro da perdersi nell'abominio del grottesco. È un istante solo nel flusso delle immagini e dei commenti, ma assume una dimensione simbolica assoluta, diventando un esplicito segno di disprezzo verso una classe che nemmeno si rende conto dell'orrore che sta compiendo, incapace di rispettare anche il suo stesso vessillo. E piange, Pasolini, la morte di Marylin Monroe, sinceramente, personalmente: è un lamento funebre per la bellezza, comprata dalla borghesia a proprio ornamento. Il suicidio di Marylin, su un tappeto di immagini fisse, è grande e tragico, un estremo gesto di orgoglio di una bellezza stuprata dalla sua commercializzazione. La bellezza era sopravvissuta al mondo antico: come il sacro, la borghesia (quella borghesia in senso lato e non soltanto marxista che concepisce Pasolini) ha ammazzato la bellezza con la scusa di innalzarla. Tutto La rabbia è pervaso da un profondo senso di morte, di una morte diffusa, persistente sentita più ancora che razionalizzata. È la morte dei sogni: il ritorno delle salme dei soldati dalla guerra, gli avvenimenti ungheresi del 1956 (gli errori di Stalin sono i nostri errori). È la morte dell'arte, privata di anima. È la morte della rabbia stessa, schiacciata dai placebo dell'intrattenimento e della cura formale. È la morte e basta: nelle immagini della bomba che aprirà la strada ad una nuova preistoria, che sancirà la fine della nostra civiltà. Tutto questo non è legato alla lotta di classe. Pasolini è sinceramente convinto che le masse riusciranno a conquistare la dignità rubata loro dal capitale e dalla borghesia. Ma sa che la civiltà europea, compreso il suo proletariato, non prenderanno parte a questa vittoria: è la società europea ad essere morta, è la nostra civiltà, la civiltà dei classici, la civiltà contadina che costituisce le radici comuni dell'Europa, ad essere ormai contagiata dalla menzogna, dalla ricchezza, ad essere condannata. Una cosa, del futuro, Pasolini l'aveva intuita, ed era la più importante. Sapeva di appartenere ad una civiltà sempre più stanca, che aveva perso la sua occasione per rinnovarsi con la guerra (la cui unica caratteristica positiva sta nella capacità di farsi odiare, e dalla conseguente possibilità di credere fisicamente nella pace), una civiltà vecchia e destinata ad essere inghiottita dagli alieni provenienti da un mondo che fino ad ora era sempre stato trascurato. Una civiltà incapace di fare tesoro della propria antichità, una civiltà incapace di una presa sul reale, sul mondo, una civiltà impigrita, rovinata, disposta alla morte del futuro pur di perseguire la tranquillità del presente. Una società che nel proliferare delle immagini cerca un modo di consolarsi dell'eclisse della realtà, da lei stessa causata. La rabbia di Pier Paolo Pasolini è morto, senza dubbio, troppo lontano dal suo tempo, oggi, per poter ancora essere ciò che poteva essere allora. Ma osservarne il cadavere è utile: se nulla rimane del saggio, molto rimane di una sensibilità già allora del tutto estranea, in qualche modo anacronistica già quarantacinque anni fa. De La rabbia, versione 2008, è meglio fare meno attenzione alle parole e ai loro significati e porne invece molta ai silenzi fra loro, al ritmo, all'intonazione incrinata e all'urgenza della comunicazione. Pasolini è morto come analista ma ancora vitale come profeta di sventura, e in modi diversi da quelli da lui erroneamente auspicati, la sventura si è realizzata.

 


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