Film che s’inserisce in un periodo, che sembra ormai lontanto nel tempo, in cui il cinema italiano si è impegnato nel recupero di un impegno e una denuncia sociale, una volta tanto non relegate alla produzione televisiva odierna, didascalica e permeata di buonismo da sceneggiato, nonostante l’intervento produttivo della tv stessa, che non ha per fortuna imposto il proprio linguaggio al medium cinema. In particolare a due film, forse i più rappresentativi di questa corrente: I cento passi e Placido Rizzotto.
Placido Rizzotto è un film che ostenta una precisa scelta linguistica che ne ha forse penalizzato la distribuzione nelle sale, oltre alla rappresentazione di un personaggio legato ad un passato, per certi versi lontano della terra di Sicilia ma fondamentale per il suo presente e futuro, che avrebbe meritato la stessa attenzione mediatica riservata alla altrettanto fondamentale vicenda di morte di Peppino Impastato, anch’egli vittima della mafia e del lungo oblio riservatogli. Quello di Rizzotto è ancor più peculiare, stante il mancato ritrovamento del suo corpo, gettato in un profondo anfratto sopra Corleone e il cui assassino, oltre ad essere stato assolto per insufficienza di prove, è divenuto pure uno dei maggiori rappresentanti del sistema mafioso. Scimeca, nel raccontare la figura di questo coraggioso sindacalista che ha ispirato anche il suo successore Pio La Torre e ha visto l’esordio nel campo della lotta alla criminalità del Generale Dalla Chiesa, opta per un tipo di racconto che recupera le radici stesse della tradizione orale, lasciando che sia il padre stesso, in veste di contastorie ambulante, a rinvenire la memoria del passato attraverso le tavole dipinte in cui è riversata la vicenda drammatica del figlio defunto, oppostosi al sistema di assegnazione delle terre e del lavoro dei capi mafia locali. Rizzotto viene subito visto dai suoi conterranei come un personaggio anomalo, distante dalla mentalità locale, in quanto combattente partigiano e avvezzo ad una logica di giustizia e di lotta non comuni, gravato dal peso della propria missione e del suo futuro martirio, che la croce di ferro sopra il monte di Corleone, stagliato dietro di sé a braccia aperte come una sorta di futuro Cristo crocifisso, pare rammentargli. La croce è, infatti, immagine simbolo che reitera la propria presenza nella vita di Rizzotto a preannunciargli la sofferenza di cui si farà carico costantemente, anche nei momenti di passione vissuti con la propria amata Lia, il cui incontro più significativo avviene proprio ai piedi di una croce, dove il protagonista confessa tutta la propria insoddisfazione e turbamento per il male che affligge la sua terra da cui non riesce e non vuole separarsi. Rizzotto tenta di opporsi alla mentalità mafiosa e lo fa sin dal principio, intervenendo in aiuto dei suoi amici sindacalisti, opponendosi a “Lo Sciancato”, ovvero Luciano Liggio, futuro capo mafia, suo nemico e nemesi politica ed affettiva, che nel momento finale gli rammenterà come la sua morte non sia dettata dal fatto che si chiami Rizzotto, ma perché ritenuto insano di mente, estraneo alla mentalità comune che accetta il consolidato sistema mafioso di assegnazione del lavoro campestre e di spartizione terriera, dettati da precisi criteri familisti. Scimeca, nel raccontare la morte di Rizzotto, opta per una soluzione alla Rashomon, in cui la verità fatica ad emergere perché frammentaria e il compito del suo presunto disvelamento ci viene dato dall'unica persona che non ha assistito alla vicenda, ma che la conosce perfettamente nonostante il suo isolamento, grazie all’oralità del racconto di cui è intrisa la terra di Sicilia e all’omertà dei suoi abitanti nei confronti della giustizia, come dimostra la sequenza in cui gli amici, pur avvertendo il pericolo gravante su Placido, pavidamente rinunciano a seguirlo e a proteggerlo. La scelta dell’accento siculo denota, come si diceva all’inizio, come Scimeca abbia voluto conferire una precisa connotazione stilistica e narrativa, da cui traspare anche un’esigenza di fedeltà al racconto e alla terra di appartenenza. Infatti, se la vicenda di Rizzotto è frutto di una tradizione orale di trasmissione ai posteri della sua tragedia, per non dimenticarla, questa dev’essere giocoforza resa nella sua lingua d’origine, senza che questo renda incomprensibile la vicenda stessa, in quanto la parlata viene comunque ammorbidita senza per questo snaturarla del tutto. A differenza de I cento passi, in cui Giordana ha preferito invece adottare un uso più marcato dell’italiano, lasciando a sole brevi inflessioni il compito di connotare la parlata dei suoi protagonisti.
Placido Rizzotto e I cento passi costituiscono dunque film che a loro modo hanno permesso un recupero mnemonico della storia della Sicilia e dei suoi martiri vittime della Mafia, costringendo ad una riflessione seria sul problema dell’oblio della Storia e di chi ha contribuito a farla - pagandone le conseguenze con la vita -, recuperando la tradizione del film di denuncia senza cadere in facili soluzioni stilistiche di regia. E, nel caso di Placido Rizzotto, attraverso un recupero anche della migliore tradizione della terra di Sicilia, ovvero quella cultura orale e del racconto che costituiscono un ulteriore esempio di riutilizzazione della memoria e del suo immenso potere.
TITOLO ORIGINALE: Placido Rizzotto; REGIA: Pasquale Scimeca; SCENEGGIATURA: Pasquale Scimeca; FOTOGRAFIA: Pasquale Mari; MONTAGGIO: Babak Karimi; MUSICA: Agricantus; PRODUZIONE: Italia; ANNO: 2000; DURATA: 110 min.
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