Cinema Italia: breve sguardo tra video e digitale PDF 
Gabriele Perrone   

La forma è il centro di interesse di Il mistero di Oberwald, film di Michelangelo Antonioni tratto da L’aquila a due teste di Cocteau. E’ la prima volta che il regista di Ferrara accetta il genere in tutte le sue componenti melodrammatiche, usate da pretesto per una sperimentazione tecnica. “Era una storia detestabile, che non mi piaceva affatto, ma ho avuto un sospiro di sollievo. Mi sono sentito veramente libero di fare dei gesti tecnici: non è un film di, è un film diretto da”(1). Il mistero di Oberwald rappresenta un caso singolare; è la prima volta che un regista cinematografico realizza un film usando in prestito le tecnologie video della televisione di Stato, la RAI (produttrice del film).

L’obiettivo dell’operazione congiunta era quello di lanciare un nuovo modo di fare cinema, un modo che permettesse di manovrare con flessibilità i mezzi tecnici e operare liberamente sull’immagine. Questa operazione richiedeva un compromesso; unire le potenzialità espressive delle lavorazioni elettronico - televisive e la qualità cinematografica. La soluzione prese il nome di televisione ad alta definizione (2), un sistema di trasmissione a 1125 linee concepito per ottenere una risoluzione dell’immagine paragonabile al 35 mm. “Il sistema elettronico è molto stimolante. Lì per lì sembra un gioco. Ti mettono davanti a una consolle piena di manopole manovrando le quali puoi aggiungere o togliere colore, intervenire sulla sua qualità e sui problemi tra le varie tonalità. Si possono anche ottenere effetti proibiti al cinema normale. Insomma, ti accorgi ben presto che non si tratta di un gioco, ma di un modo nuovo di fare del cinema. Non della televisione, del cinema. Un modo nuovo di usare finalmente il colore quale mezzo narrativo, poetico”(3).

E’ proprio sul colore l’intervento tecnico di Antonioni, a tratti a tutto schermo, a tratti in parte di esso, rendendo colorato il temporale, l’anima dei personaggi, i pensieri, i paesaggi così come le cose, fornendo allo spettatore un continuo termine di paragone tra finzione e realtà. La trasformazione continua dell’immagine (abusato l’utilizzo della palette(4)) diventa però un gioco nel quale il “nuovo” regista commette l’errore più banale, attribuire un eccessivo valore simbolico al colore. Un salto nel buio che portò ad un risultato deludente con poco riscontro a causa della sua veloce involuzione, “Se questo esperimento ha un lato negativo è quello di essere stato fatto troppo presto […] mentre noi giravamo altre cose accadevano, mentre Michelangelo montava, nel campo dell’elettronica altre cose stavano nascendo che avrebbero dato ancora più libertà dal punto di vista creativo dell’immagine”(5).

Dall’esaltazione della forma alla sua dissacrazione da parte del duo palermitano Ciprì e Maresco; la loro filmografia sconfina sia nel cinema, sia nel video, sia nella televisione, presentando un numero elevato di lavori immersi in uno scenario inevitabilmente post – antropocentrico. “Non abbiamo mai fatto distinzione all’origine, (tra cinema, video e televisione) nel senso che il tratto che accomuna queste tre realtà è stato l’impegno a sperimentare, a inventare”(6). L’esaltazione del luogo passa attraverso l’involuzione dell’uomo, del suo corpo, posizionato con cura in una realtà rappresentativa legata al teatro. Il Manocchio è uno dei numerosi lavori in video (Enzo, domani a Palermo!, Arruso ecc.) dove alcuni personaggi come il ciclista Francesco Tirone e Marcello Miranda, in arte “il terribile Rocco cane”, si aggirano per il cretto di Gibellina temendo l’arrivo del misterioso Manocchio, mostro che divora i cervelli. Lo spazio è immenso e gigantesco in confronto ai corpi posti come nella crocifissione, rappresentati attraverso un bianco e nero classico ma necessario, “non avevamo la possibilità di lavorare in pellicola e usando l’elettronica il colore non ci piaceva. Inoltre il bianco e nero ci permetteva di rappresentare una Palermo (ma non solo) fuori dal tempo, ci dava la possibilità di determinare un’astrazione, una surrealtà”(7). Le voci metalliche dei malcapitati sono astratte e mobili rispetto ai loro corpi fissi, attrattiva del Manocchio che ghignando si avvicina a loro muovendosi nel labirinto cementificato, mostrando alla fine un finto occhio, riflesso della prospettiva fasulla che regala la nuova tendenza tecnologica.

Il digitale nella produzione cinematografica italiana
Stimolati da esperienze pionieristiche di autori come Francis Ford Coppola, George Lucas, Wim Wenders e Michelangelo Antonioni, in Italia dal 1999 ad oggi abbiamo assistito a un veloce aumento di visibilità del tema “la tecnologia digitale nel cinema”. In ogni singola fase della preparazione di un film l’utilizzo della nuova frontiera tecnologica causa conseguenze evidenti, capaci di trasformare l’assetto economico, produttivo ed estetico - espressivo del cinema. Tutto ciò è evidente nelle parole di diversi autori italiani; Giuseppe Bertolucci (fratello di Bernardo) afferma a proposito: “La prima possibilità che il digitale offre e che mi stimola è quella di un ridimensionamento della messa in scena, […] quasi un suo abbattimento. […] Usando il digitale come caméra stylo, si viene invitati a usare il mondo come set possibile, a non intervenire sulla realtà con laboriosi ricorsi a scenografia, illuminazione, costumi, trucco: a rifiutare la messinscena come ricostruzione artificiale della realtà, e a usare quest’ultima per quello che è. Tutto questo significa qualcosa di molto importante sul piano dei modi e dei tempi di ripresa: significa ridurre al minimo il cosiddetto tempo di allestimento in una giornata di lavoro. Nella mia esperienza, l’allestimento di scenografia, di illuminazione, di trucco, di costume, occupavano praticamente i due terzi della giornata di lavoro. Solo poche ore, quindi, erano dedicate alle riprese vere e proprie. Abbattendo il principio della messinscena, ecco che il vostro tempo di lavoro con gli attori si moltiplica, diventa praticamente gran parte della giornata. Questo è un cambio di abitudine fondamentale”(8).

Ecco che i registi italiani rendono propri dei concetti fondamentali già definiti da altri autori europei e mondiali: tempo e rapporto con e dell’attore. Sulla concezione del tempo, Emidio Greco (L’uomo privato) considera che il digitale può essere utile, e quindi usato, “non solo e non tanto per una ragione economica, ma per altri tipi di ragioni. E’ certamente uno strumento più leggero della macchina da presa, che comporta meno persone. Per esempio, se alcune scene è previsto che vengano girate con 2, 3, 4, 5 macchine da presa, è evidente che 2, 3, 4, 5 telecamere digitali sono più leggere di 5 macchine da presa con tutto quello che comportano”(9).

Si restringe il cast lavorativo con la diretta conseguenza che l’autore diventa sempre più indipendente; oltre a ciò dalle parole di Emidio Greco viene posta la questione fondamentale dell’economicità. Il risparmio si materializza quando, o meglio, in quel cinema che impiega “la maggior parte del budget in ciò che si trova davanti alla telecamera e non dietro di essa, intendendo dire con ciò che l’evoluzione più auspicabile è quella che va nella direzione di un massimo investimento negli elementi che compongono e danno un significato all’immagine piuttosto che nelle apparecchiature tecniche necessarie a realizzarla”(10).

Tutto questo significa che nel digitale è possibile distinguere due diversi tipi di cinematografia: quella effettistica e costosa di George Lucas (con risultato di una immagine simile alla pellicola), e quella “dipendete” (con risultato di una immagine differente dal quella della pellicola) di autori come Asia Argento (Scarlett Diva), Marco Simon Puccioni (Quello che cerchi) e Salvatore Piscicelli (Quartetto), autori di film realizzati con mezzi digitali diversi, da una Sony 12 bit Digital Betacam a una HD, nel tempo sempre meno costosi e quindi sempre più accessibili. La maggiore accessibilità del mezzo porta al fenomeno della “democratizzazione del digitale” o “comunismo digitale” come lo chiama il critico cinematografico Enrico Ghezzi, “in contrapposizione alla situazione che si profilava 50 anni fa per la TV, quando nessuno produceva per tutti, oggi si è arrivati al paradosso secondo il quale tutti producono per nessuno”(11). Nonostante gli entusiasmi e i richiami alla non demagogia, il problema esiste e si manifesta ogni anno sempre più sia nei panorami festivalieri che sul mondo virtuale di internet; è evidente come anno per anno sul territorio italiano aumentino le rassegne cinematografiche dedicate ai cortometraggi, territorio dove è evidente la presenza di corti amatoriali realizzati da appassionati o apprendisti registi, così come i festival virtuali.

Esempio concreto di questo ultimo caso sono il Babelgum Online Film Festival (http://www.babelgum.com/online-film-festival/) e Habbowood (www.habbo.it), festival di Produzione Cinematografica sul web giunto alla terza edizione; in questa sconfinata chat tridimensionale il proprio alter ego è in gara con iscritti di tutto il mondo attraverso filmati digitali realizzati sul sito di una durata non superiore al minuto. A ciò si sovrappone il dibattito relativo alla concezione della nuova immagine; secondo Mario Calzini “dal punto di vista della definizione il discorso è un po’ difficile: confrontare l’immagine creata con la pellicola e l’immagine creata con il digitale sarebbe come voler paragonare le vacche con le capre. Si tratta di due cose diverse”(12). Di parere simile è il regista Giuseppe Bertolucci, “è sbagliata l’inevitabile tentazione del confronto tra immagine digitale e immagine analogica. E’ un paragone che sembra nascere quasi spontaneo, anche in chi con il digitale ci lavora. Si dice sempre più spesso riguardo ai film girati in digitale: “sembra pellicola, non ci si accorge della differenza”. Per me invece si tratta di due parametri estetici completamente diversi. Non ha senso, ed è sbagliato, pensare al digitale come a una simulazione della pellicola”(13). In conclusione la situazione è incerta, perché il problema principale è che il sistema di trattamento numerico delle informazioni, proprio della tecnologia digitale, implicherebbe una totale riconversione delle professionalità e degli apparati.

Proiezioni
Il prodotto digitale si scontra con la mancanza di sale adatte alla proiezione di questi film, discriminante principale che causa l’invisibilità di questi prodotti proiettandoci verso una nuova guerra dei formati (la prima si concluse a Parigi nel 1909 con “Il congresso degli scemi” - le Congrès des dupes). Se la 25esima edizione del Torino Film Festival è la prima in Italia a fornirsi di sistemi di proiezione digitale, in territorio nazionale Microcinema (14) è il primo circuito di distribuzione di film e contenuti digitali per le sale cinematografiche.

Nasce nel 1997 con il supporto tecnologico del Centro Ricerche e Innovazione Tecnologica (CRIT) della Rai di Torino con l’obiettivo di studiare e sviluppare il cinema digitale in Italia. Il 16 dicembre 2006 la convention a Milano per la presentazione del progetto alle Sale della Comunità sancisce l’avvio della fase operativa sperimentale: il 20 aprile 2007 la proiezione della “prima” in diretta dal Teatro dell’Opera di Roma de “La Traviata” di Giuseppe Verdi, con la regia e le scene di Franco Zeffirelli, inaugura la piena funzionalità del circuito pilota di 25 sale. E’ stata la prima diretta al mondo su scala nazionale. Al novembre 2007 si conclude la fase sperimentale che consegna al mercato 29 sale perfettamente funzionanti, connesse via satellite bidirezionale, rappresentative del primo network digitale satellitare italiano. Questo nuovo circuito propone un nuovo tipo di cinema perché capace si superare i limiti fisici della pellicola cinematografica, in termini di acquisizione, spostamento, funzionamento e usura, rende flessibile, varia e adattabile la programmazione di diverse tipologie di contenuti (dall’LSDI al D/E Cinema, dagli inserti pubblicitari ai materiali aziendali), da spazio a film di qualità che hanno meno rilievo nella programmazione tradizionale per l’alto costo copia della pellicola, abbatte i costi di gestione sostenuti con il metodo "analogico", offre un network per la diffusione, anche in diretta, di spettacoli di intrattenimento culturale tra cui Opere liriche e teatrali, Concerti e Conferenze.

L’esordio registico di Asia Argento, Scarlet Diva, e il successivo cortometraggio La scomparsa, esprimono due modi diversi, due regie opposte realizzate entrambe attraverso il video. Nel cortometraggio, ritratto lirico e sperimentale su Roberta Castoldi, violoncellista e poetessa, costruisce la sua migliore immagine cinematografica. Attraverso inquadrature mobili, decentrate e intime, capaci di dare corpo ad un linguaggio eterogeneo che esprime pienezza e vuoto, musica e poesia, riesce a non farsi influenzare dal linguaggio video musicale definito “facile e superficiale che rischia di imbastardire un regista, anziché spingerlo a innovare e sperimentare”(15). Ciò è reso possibile da alcune sue precedenti esperienze come il video realizzato nel 1999 per il gruppo RYZL, La tua lingua sul mio cuore, in Super8. Nonostante ciò nel lungometraggio, il primo in Italia ad essere stato girato interamente con sistemi Digital Betacam, non riesce ad esprimersi in egual modo; l’immagine video volutamente digitale (il nero e il blu livido granuloso sono presenti lungo tutto il film) trova la propria essenza, la propria veridicità, solo nell’immaginario urbano, quello legato ai neon di locali underground e all’infinito sottopassaggio metallico di un aeroporto. Scarlet Diva è un film scritto in modo evidente davanti allo schermo di un computer, dove pensieri e parole assumono la forma dell’immagine raccontandosi, fino ad esplodere in modo natura nella sequenza finale del film, un lume di una immensa scalinata attraverso una dissolvenza incrociata assume la forma della freccia lampeggiante di un programma di scrittura sulla parola fine. Questo film inoltre esprime la principale tendenza esistente nel panorama italiano, l’avvicinamento alle nuove tecnologie soprattutto per una questione di necessità e solo raramente di sperimentazione: “avere la possibilità di rivedere immediatamente le scene girate e gli eventuali rifacimenti senza preoccuparsi del consumo della pellicola è un grande vantaggio. Non è più necessario procedere allo sviluppo chimico della pellicola, e questo si traduce in evidenti vantaggi per quanto riguarda la versatilità e la velocizzazione della produzione”(16).

Da un esordio all’altro, da Asia Argento al “meticciato” Marco Simon Puccioni, che con Quello che cerchi realizza una di quelle poche opere di puro sperimentalismo tecnologico, oggi visibili in Italia. “Tutto il film, in termini sia narrativi che tecnologici, è sintetizzabile nella formula “dal meticciato può nascere il nuovo”. […] Fare un’opera prima ha un senso se si è spinti dalla ricerca di nuove strade e il mio sforzo principale è diretto alla ricerca dell’innovazione, in particolare quella linguistica(17)”. Nonostante la storia evidenzi le pecche riscontrabili in un esordio, definisce le “realtà” narrative attraverso un diverso utilizzo di formato; non a caso il regista utilizza quasi tutti i formati esistenti al periodo, dal 35 mm all’HD, dal Digital Betacam al DVcam. “Abbiamo usato diversi formati digitali che corrispondo a differenti livelli narrativi. Ad esempio quello realista ha richiesto riprese in HD, che quasi non si distingue dalla pellicola, o in Digital Betacam. Poi c’è un piano “interiore” mostrato con immagini alterate che corrispondono al senso di straniamento di Davide verso la realtà (foto 13). In questo caso abbiamo girato in DVcam, un formato che permette uno stile di ripresa molto veloce, ma offre una qualità dell’immagine inferiore”(18). Uno stile che definisce una realtà framezzata, complessa, capace di dare al regista la “forza” di giocare sulle infinite espressività degli attori e dei paesaggi riassumibili in un montaggio che attinge a circa 80 ore di girato.

Ottava regia di Maurizio Nichetti, Honolulu Baby assieme a Fratello, dove sei? (O Brother, Where Art Thou? – 2000) dei Coen rappresenta un caso esemplare per la peculiarità tecnica che lo distingue: l’essere stato riversato totalmente dalla pellicola a dischi rigidi digitali. Questa operazione permette al singolo regista di intervenire su ogni singolo fotogramma, come ad esempio “la color correction solo su una porzione del fotogramma, come spesso accade nel corso delle telefonate tra il protagonista e la moglie”(19). Un film assolutamente tradizionale al quale è stato applicato l’idea di lavorare interamente in ambiente virtuale, al fine di rendere il racconto più evocativo. “Penso al Coppola di Un sogno lungo un giorno e all’Antonioni di Il mistero di Oberwald, che tentavano di usare una colorazione elettronica. Il problema è che sia l’uno che l’altro avevano avuto l’intuizione prima dell’arrivo delle macchine, per cui hanno fatto un lavoro che era estremamente difficile, farraginoso, lungo e anche intellettuale. Oggi è tutto più semplice: noi abbiamo fatto una lavorazione digitale su un’ora e mezza di film e l’abbiamo potuta fare in 15 giorni, almeno per quanto riguarda il color grading, che fino a un anno fa da solo avrebbe occupato mesi di lavorazione. Quindi di colpo l’invenzione tecnologica ha permesso quel controllo sul colore che Antonioni e Coppola avevano cercato di realizzare con macchine non adatte” (20). Primo caso italiano dove l’apporto del nuovo effetto tecnologico è applicato ad un intero film.

“Volevo usare questo formato (Sony PD100) per capire cosa si poteva tirar fuori da questi mezzi, sia sul set, a livello di riprese, sia poi, anzi soprattutto, a livello di materialità e di impatto dell’immagine. […] La differenza è abissale. Effettivamente è un modo molto più libero. Consente tantissime libertà che la pesantezza del mezzo tradizionale non permette”(21). Girato seguendo i dettami del Dogma 95 (Quartetto non appartiene al movimento), Salvatore Piscicelli dimostra come il digitale “leggero” possa permettere di annullare completamente la presenza del set, rendendo il mondo stesso una location dove girare delle storie; inoltre mostra come una camera digitale semiprofessionale sia capace di sostituire l’intero apparato fotografico permettendo un’assoluta libertà.

La libertà di osservare con sguardo indagatore le storie di quattro giovani donne alle prese con i loro drammi personali: l’autonomia si manifesta nel seguire in modo quasi corporale le gesta quotidiane, le differenti parlate, tanto da fare percepire l’inconsistenza della struttura fisica ricostruendo lo spazio cinematografico partendo dalla figura dell’attore. L’eccessiva dinamicità, probabile voglia di mostrare come il nuovo mezzo sia onnipotente, pecca però nella volatilità di riprese che necessitano una staticità drammaturgica, quando lo sguardo, l’inquadratura, deve fissare la violenza dei sentimenti. La Sony PD100 utilizzata per le riprese del film, è allo stesso tempo mezzo di ripresa introspettivo e trasgressivo, un vero e proprio video confessionale condiviso tra il gruppo ma mosso solo dalla mano inquieta del “regista” dell’instabile quartetto. Ciò che così viene ripreso non svolge il ruolo di rendere vero solo quello che mostra quando lo mostra, ma è il materiale per un possibile film, divenuto aspettativa quotidiana dello spettatore del cinema tecnologico, causa che rende ogni gesto un gioco, o meglio, la parte prevista e da interpretare in un copione.


Note
(1) Giorgio Tinazzi, Michelangelo Antonioni pag. 115, Il castoro cinema, Truccazzano, Milano 2006
(2) questo tipo di ricerche vennero motivate anche da un’esigenza di sviluppo tecnico interno alla stessa industria televisiva: si credeva di migliorare e rinnovare gli standard qualitativi dell’immagine elettronica in vista di una futura riconversione di tutti gli apparecchi verso una maggiore risoluzione. Il mercato si rivelò disinteressato anche per la repentina imposizione del digitale
(3) Michelangelo Antonioni, tratto da Michela Greco, Il digitale nel cinema italiano pag. 26, Lindau, Torino 2004
(4) Nella computer grafica la tavolozza (palette in inglese) è una lista di colori scelti nell'insieme di tutti quelli disponibili. Ogni colore della tavolozza è associato ad un indice, cioè ad un ordinale che identifica il colore nella tavolozza stessa (è possibile comunque che lo stesso colore si ripeta con indici diversi). La rappresentazione dei pixel di un'immagine attraverso indici nella tavolozza permette un drastico risparmio memoria e tempo computazionale rispetto ad altre tecniche, ma limita la gamma di colori utilizzabili a quelli presenti nella tavolozza. Questi ultimi possono essere fissi, se determinati, ad esempio, dall'hardware utilizzato, oppure modificabili a seconda della fattispecie di un'immagine. Per sfruttare al meglio le caratteristiche della tecnica digitale il numero di elementi in una tavolozza è generalmente una potenza di due e raramente supera i 28 = 256 colori. Quando è necessario un numero di colori ancora maggiore – è questo il caso di tutte le rappresentazioni fotografiche o realistiche – le tavolozze non vengono usate; il colore è allora codificato direttamente nelle componenti cromatiche secondo il modello adoperato.
(5) Luciano Tovoli, tratto da Michela Greco, Il digitale nel cinema italiano pag. 26, Lindau, Torino 2004
(6) Franco Maresco, tratto da intervista di Bruno Di Marino in libretto DVD Video in Italy 1, Rarovideo interferenze, 2006
(7) Ivi
(8) Giuseppe Bertolucci, tratto da Michela Greco, Il digitale nel cinema italiano pag. 34, Lindau, Torino 2004
(9) Emidio Greco, tratto da Michela Greco, Il digitale nel cinema italiano pag. 40, Lindau, Torino 2004
(10) Pier Giorgio Bellocchio, tratto da Michela Greco, Il digitale nel cinema italiano pp. 54-55, Lindau, Torino 2004
(11) Enrico Ghezzi, tratto da Michela Greco, Il digitale nel cinema italiano pag. 56, Lindau, Torino 2004
(12) Mario Calzini, tratto da Michela Greco, Il digitale nel cinema italiano pag. 56, Lindau, Torino 2004
(13) Giuseppe Bertolucci, tratto da Michela Greco, Il digitale nel cinema italiano pag. 36, Lindau, Torino 2004
(14) il termine è stato coniato nel 1991 dal Total Mobile Home Microcinema di San Francisco, dove tutti i film sono underground perché tenuti in uno scantinato. I fondatori dicono di immaginare un movimento alternativo, una sorta di piccola industria del cinema. Ed ora, la parola è venuta a descrivere un intimo, uno stile a basso budget di film girati in formati relativamente poco costosi come i video Hi-8, DV, e (meno spesso) fai-da-te piu vecchi, come stock 16mm film.
(15) Asia Argento,tratto da intervista di Bruno Di Marino in libretto DVD Video in Italy 1, Rarovideo interferenze, 2006
(16) Asia Argento, tratto da Michela Greco, Il digitale nel cinema italiano pag. 42, Lindau, Torino 2004
(17) Marco Simon Puccioni, tratto da Michela Greco, Il digitale nel cinema italiano pag. 42-43, Lindau, Torino 2004
(18) Ivi
(19) http://www.nichetti.it/honolulu
(20) Ivi
(21) Salvatore Piscicelli, tratto da Michela Greco, Il digitale nel cinema italiano pag. 38, Lindau, Torino 2004

 


#01 FEFF 15

Il festival udinese premia il grandissimo Kim Dong-ho! Gelso d’Oro all’alfiere mondiale della cultura coreana e una programmazione di 60 titoli per puntare lo sguardo sul presente e sul futuro del nuovo cinema made in Asia...


Leggi tutto...


View Conference 2013

La più importante conferenza italiana dedicata all'animazione digitale ha aperto i bandi per partecipare a quattro diversi contest: View Award, View Social Contest, View Award Game e ItalianMix ...


Leggi tutto...


Milano - Zam Film Festival

Zam Film Festival: 22, 23 e 24 marzo, Milano, via Olgiati 12

Festival indipendente, di qualità e fortemente politico ...


Leggi tutto...


Ecologico International Film Festival

Festival del Cinema sul rapporto dell'uomo con l'ambiente e la società.

Nardò (LE), dal 18 al 24 agosto 2013


Leggi tutto...


Bellaria Film Festival 2013

La scadenza dei bandi è prorogata al 7 aprile 2013 ...


Leggi tutto...


Rivista telematica a diffusione gratuita registrata al Tribunale di Torino n.5094 del 31/12/1997.
I testi di Effettonotte online sono proprietà della rivista e non possono essere utilizzati interamente o in parte senza autorizzazione.
©1997-2009 Effettonotte online.