J.A.S.T., la prima serie tv su carta PDF 
Tiziano Colombi   

Nel nuovo spot virale della Nike il regista Robert Rodriguez spiega a Kobe Bryant cosa serve per mettere in scena The Black Mamba. Poche semplici parole: bigger budget, bigger explosion. Soldi, più ne hai più le fiamme arderanno alte sullo schermo. J.A.S.T. manda in frantumi questa equazione. Tre autori, lo scrittore Simone Sarasso, il fumettista Daniele Rudoni e la sceneggiatrice Lorenza Ghinelli hanno messo su carta una storia da milioni di dollari. Scenografie grandiose, movimenti di macchina iperbolici, un cast di attori imponente e location sparse per il mondo intero. J.A.S.T. è un racconto di spie e assassini, una corsa contro il tempo per salvare una bella fetta di umanità. Nell’intervista che segue Simone Sarasso prova a spiegare che diamine hanno combinato lui e i suoi complici di penna. A voi non rimane che leggere.

J.A.S.T. è un serial tv su carta, il primo. Per cercare di capire di che cosa si tratta possiamo cominciare provando a fugare alcuni dubbi. Non è una sceneggiatura e soprattutto non vedremo mai le parole scritte tramutarsi in immagini.
No, decisamente J.A.S.T. non è una sceneggiatura. Questo non vuol dire che non possa diventarlo. Per il momento, però, è solo quello che dice di essere: il primo serial tv su carta. Cioè un'intera stagione di un telefilm, comodamente fruibile senza televisione.

Cosa condivide J.A.S.T. con il romanzo e cosa con le immagini di un serial?
J.A.S.T., per struttura e aspetto, è particolarmente affine ai serial televisivi americani: fin da una prima occhiata al cofanetto che contiene i tre libri, il corto circuito è immediato. Se poi si inizia a leggere la storia, ci si accorgerà che ogni episodio dura più o meno come quello di qualunque serial americano (40 minuti). Tuttavia, nonostante il packaging, le tempistiche, la scrittura visionaria e i personaggi "televisivi", J.A.S.T. rimane profondamente ancorato al medium cartaceo, e dunque si fruisce come un romanzo. E proprio del romanzo si porta appresso alcuni vantaggi: la possibilità di mettere in piedi scene esagerate con budget prossimo allo zero, e la discorsività tipica delle storie nero su bianco: a narrare per immagini, si sa, non ci son tempi morti. In letteratura, gioco forza, le parole pesano di più.

Gli autori di J.A.S.T. sono tre. Tu, Daniele Rudoni e Lorenza Ghinelli. Tre penne con tre modi diversi di raccontare, come diversi sono i vostri percorsi artistici. Come siete riusciti a convivere sullo stesso foglio?
Il progetto, fin dalla griglia di partenza, aveva una regia, una direzione artistica dichiarata: la mia. Insieme con Daniele e Lorenza abbiamo costruito l'ossatura della storia e i personaggi, ma poi ho redatto io la scaletta e assegnato ad ogni autore episodi e scene. L'editing finale l'abbiamo fatto in tre, amalgamando gli stili e smussando gli angoli.

Se non sbaglio hai scritto anche per la tv. Quanto ha contato quella esperienza nella realizzazione di J.A.S.T.?
Nulla, visto che ho cominciato a scrivere per la tv dopo aver terminato J.A.S.T. Sicuramente, però, ho portato qualcosa di J.A.S.T. nelle serie che ho messo in pagina per il piccolo schermo.

La tua fascinazione per il cinema è ben visibile, a partire dal tuo primo romanzo Confine di stato, nel quale l’incipit è costituito da un vero e proprio storyboard. Perché questa scelta?
Più che di storyboard, parlerei di veri e propri titoli di testa. Cinema e letteratura sono sempre andati di pari passo nella mia produzione artistica. Mi è sempre risultato impossibile scinderli. E dunque, quando è stato il momento di pensare a una sequenza d'apertura per il mio libro, non ho potuto fare a meno di immaginarmi i titoli di testa scorrere in pagina come al cinema. Confine, poi, è davvero un caso speciale. La sua prima edizione, quella marcata Effequ, aveva un packaging studiato per assomigliare a un dvd. Come vedi, è da parecchio che inseguo l'idea d'una confluenza di parole e immagini.

Molte delle più brillanti innovazioni in termini visivi e di scrittura arrivano oggi da serie televisive come Lost, Flash Forward o 24. Credi che questa cifra stilistica possa influenzare in modo significativo i giovani scrittori cresciuti immersi nella cultura delle immagini?
Lo spero. Mentre in Italia, salvo alcune virtuose eccezioni, il mondo delle lettere si ripiega su se stesso, s'incaponisce sulla parola, si divora il fegato e non la smette di guardarsi allo specchio, di là dall'Oceano è nata una rivoluzionaria forma di narrazione "lunga". Grazie a questa nuova età dell'oro del serial possiamo godere di capolavori come Boardwalk Empire o The Pacific, opere dotate d'un'epica trascendente e immensa. Raramente il cinema, soprattutto per ragioni di spazio riservato al racconto delle emozioni, aveva osato tanto. Se si riuscisse ad imparare la lezione e trasferirla su carta, si sarebbe fatto un gran servizio alla letteratura. Spero che le giovani menti (ma pure le più anziane) al lavoro sulla tastiera non rimangano insensibili al richiamo del serial.

Il divario qualitativo tra le produzioni made in USA e quelle italiane è evidente. Credi che questo dipenda unicamente da una mancanza di investimenti economici o si tratta piuttosto di un deficit creativo?
Il budget conta. Cavolo se conta. In Italia, nonostante si spendano un sacco di soldi per pagare gli attori di fiction, non c'è abbastanza grano per competere con le produzioni made in USA. C'è inoltre una scarsa fiducia, da parte delle major, nel CGI. Ed è un vero peccato, perchè in Italia abbiamo dei veri pionieri della computer grafica. Delle professionalità validissime. Tuttavia, non è solo questione di soldi o effetti speciali. In Italia manca la qualità: in termini di produzione, di recitazione, e soprattutto di scrittura. Si investe poco nell'innovazione, si osa pochissimo. Si ingaggiano pessimi attori. Si mettono insieme team di soggettisti e sceneggiatori di cui raramente fanno parte scrittori professionisti. Il risultato è spesso raffazzonato, tenuto insieme col nastro adesivo, traballante. Non si contano gli scimmiottamenti del modello americano. Ancora più ridicoli nella loro attitudine alla fotocopia. Un esempio per tutti: il commissario dei RIS che risponde al telefono e, invece di dire "Pronto?" come qualunque cristiano, urla nel ricevitore il proprio cognome, imitando Grissom e i ganzi di CSI. Non tutto è da rifare, però. Questo va detto. Esistono produzioni ultravirtuose, sia presso un editore storicamente liberal come SKY, che tra le braccia della cara vecchia mamma RAI. Penso a due serie in particolare: Romanzo criminale, il capolavoro in due stagioni di Sollima e De Cataldo. E il recente gustosissimo Fuoriclasse, diretto da Riccardo Donna e scritto magistralmente da Federico e Domenico Starnone. Queste due serie, tra loro diversissime per mezzi, temi, genere e pubblico, dimostrano come anche in Italia sia possibile realizzare opere di qualità degne di competere con i kolossal statunitensi, senza imitarli biecamente.

Hai mai pensato di scrivere per il cinema?
Sarebbe interessante. Da ragazzino pensavo di fare cinema, non certo di diventare romanziere. Il cinema è sempre stata la mia passione. Per anni ho guardato due film a sera. Quando ho iniziato a scrivere per mestiere, però, ho capito che ho bisogno di molto spazio per raccontare le mie storie. Ecco perché, oggi, sono molto più attratto dalla televisione e dalla narrazione seriale che dal cinema.

Un regista e un film che consideri fondamentali nella tua formazione?
I guerrieri della notte di Walter Hill è il mio film preferito da quando andavo alle elementari. Ma non sarei lo scrittore che sono senza il cinema di Quentin Tarantino e Robert Rodriguez, questo è sicuro.

 


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