Lebanon PDF 
Gianmarco Zanrè   

Lebanon non è, neppure lontanamente, un film da Leone d'Oro. Senza ombra di dubbio, e pur non avendo ancora visionato l'intera rosa delle pellicole che hanno partecipato all'ultimo festival lagunare. Eppure, e non senza sforzi, la volontà ha cercato di far fronte per una buona metà dell'opera, cercando di trovare un motivo che la ragione faticava a riscontrare fin dalla prima inquadratura, offuscata da una domanda ricorrente: per quale motivo una pellicola dichiaratamente schierata contro la guerra – e “imbeccata”, almeno idealmente, dallo splendido Valzer con Bashir – deve necessariamente ed insistentemente ricorrere ad una continua provocazione, insita nella violenza e nella sua più spudorata mercificazione, quanto neppure il peggiore dei telegiornali sarebbe disposto a mostrare? La risposta, per quanto sotterranea e suggerita tanto dalla sgradevolezza delle immagini quanto dalle scelte di regia, è stata precisa quanto allarmante: Mel Gibson.

Quando, anni fa, ebbi l'occasione di assistere ad una proiezione della passione gibsoniana, per l'appunto, un moto di profondo disgusto invase occhi e cuore: nonostante sia capitato, purtroppo, di assistere a spettacoli anche peggiori, e non si raggiungano, in questo caso, le “vette” di sadismo e compiacimento portate in scena dall’attore e regista australiano, il paragone con questo lavoro di Samuel Maoz è parso così naturale da divenire inquietante. L'idea di base, brillante, di ambientare un film in uno spazio angusto, oscuro, buio e rumoroso quale l'interno di un tank, così simile allo stomaco se non addirittura all'intestino di un essere umano, è svilita e vilipesa da un voyerismo legato a doppio filo con la violenza capace di far rabbrividire non per la potenza delle immagini, o per il loro utilizzo, ma per una becera e volgare assonanza ai filmati in stile youtube postati, guardati e riguardati da individui dalla dubbia moralità e da una certa instabilità emotiva e mentale. Maoz, invece di concentrarsi sulle angosce pendenti come spade di Damocle sulle teste dei quattro giovani occupanti del carro e sulle parole e i sentimenti che avrebbero potuto suscitare, preferisce mostrare, sempre attraverso “l'occhio” del cannone, ripetitive ed insistite istantanee che, invece di colpire la platea e invitarla alla riflessione, la avvicinano furbescamente all'orrore che si supporrebbe gravare sugli occhi e i cuori delle vittime di un evento terribile come una guerra, scegliendo, con  gusto macabro, di prendere le distanze da un massacro annunciato, e facendo nascere al contempo il sospetto di una sua sorta di sottile soddisfazione nel mostrare così platealmente dolore, sangue e morte. Senza alcun segno di empatia umana – La sottile linea rossa di Malick e Apocalypse Now di Coppola –, ma incapace ad un tempo della necessaria e costruttiva “freddezza” – Full Metal Jacket di Kubrick o il più recente The Hurt Locker di Katherine Bigelow –, Maoz affonda ed arranca con il suo cingolato nel fango dei colpi bassi, quasi volesse portare le sue smisurate ambizioni artistiche al grande pubblico, affrontandolo nel modo peggiore e dando sempre l'impressione di sentirsi superiore.

Ad aggravare l'andamento di un impianto già claudicante è l'apparato tecnico, anch'esso mascherato da scelte stilistiche autoriali volte principalmente a confondere lo spettatore e, nel caso del Festival, anche la giuria. Prima fra tutte la scarsa attenzione alla sceneggiatura e al dialogo, fonte più preziosa e cartina di tornasole di quello che sarebbe potuto diventare Lebanon nelle mani di un autore vero. I due episodi più riusciti del film, infatti, risultano essere proprio quelli maggiormente legati allo script e al dialogo, più adatti della violenza esplicita ed insistita a mostrare una vera volontà di ricerca all'interno di questo ribollente “intestino” che è l'animo umano. Il ruolo traballante di Assna e il racconto di Shmulik del ricordo legato alla morte del padre, completamente affidati ai primi piani e ai dialoghi tra i protagonisti, assumono una connotazione più sentita e sincera che non il montaggio sincopato e poco funzionale o il ripetitivo ed assolutamente inadeguato mirino/occhio della macchina da presa. Altro demerito di questo lavoro va infatti imputato all'utilizzo sfrenato del montaggio, sincopato come in un film d'azione alla John Woo ma incapace di sottolineare la drammaticità dei momenti fotografati dalla pellicola, tanto da sollevare dubbi e perplessità sulle stesse capacità narrative del cineasta israeliano. Un esempio illuminante, in questo senso, è dato dall'intera sequenza della fuga in notturna, capace, proprio a causa di un uso eccessivo e troppo compiaciuto del mezzo tecnico, di non mostrare nulla di quello che la sequenza stessa vorrebbe mostrare, oppure non vorrebbe mostrare. Perché esistono molti modi di portare sul grande schermo un'immagine, ma anche di non portarla. Maoz sceglie la via più facile, meno ironica, ma drammaticamente voyeristica, quasi fosse, fra gli autori, il più scandalistico, in grado non di affrontare un tema, dichiarandone grazie a tecnica e abilità di narratore la fondatezza o l'insensatezza, ma di mostrarne semplicemente gli effetti più catastrofici, senza l'ingenuità del più chiassoso dei mainstream movies e con tutta la scaltra consapevolezza di chi, in cuor suo, trae piacere da quel sottile brivido che sta nell'osservare il dolore, e dalla certezza che, trovandosi di fronte una giuria con poco coraggio, avrà un premio e riscontri assicurati. E in questa atmosfera disturbante il film prosegue, goffamente, stancamente, sfondando muri che non può aggirare, come il suo rinoceronte di ferro: e nella pancia di questo mostro, pare di sentire Maoz sogghignare sibillino all'esterno, un Peeping Tom della regia in questi primi anni del nuovo millennio.

D'un tratto giunge l'ellittico finale, che appare finto e ancor meno sincero di quanto si sarebbe potuto credere al principio. “La guerra è una droga”, recita l'incipit del succitato The Hurt Locker. Samuel Maoz lo sa bene, perché deve esserne un dipendente almeno quanto gli adrenalinici soldati della Bigelow, pur se in modo più scaltro e meno coraggioso. Maoz sa che senza la guerra non avrebbe mezzi per stupire e sconvolgere giurie e pubblico. Non per arrivare al Leone d'Oro. E di sicuro non per fare cinema.

TITOLO ORIGINALE: Lebanon; REGIA: Samuel Maoz; SCENEGGIATURA: Samuel Maoz; FOTOGRAFIA: Giora Bejach; MONTAGGIO: Arik Leibovitch; MUSICA: Nicolas Becker, Benoît Delbecq; PRODUZIONE: Israele; ANNO: 2009; DURATA: 90 min.

 


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