Melancholia PDF 
Elisa Mandelli   

Secondo la fisiologia greca, da Ippocrate in poi, il manifestarsi dei differenti stati d'animo è dovuto all'azione di quattro umori corporali: sangue, flegma, bile gialla e bile nera (in greco mélaina cholé, da cui melancholia). A seconda che l'uno o l'altro si manifesti in modo preponderante, fuoriuscendo dalla sede in cui si trova naturalmente (la milza per la bile nera), l’individuo dimostrerà un temperamento sanguigno o flemmatico, collerico o melanconico, muovendosi sul confine tra semplice predisposizione caratteriale e stato patologico. Con la sua sostanza densa e tenebrosa, la bile nera è tra tutti gli umori quello che conosce le variazioni più impreviste e pericolose, e che con più tenacia imprigiona chi ne è affetto, invischiandolo in una persistente e cupa tristezza (stato che già Aristotele considerava insieme penoso e privilegiato, vedendovi il manifestarsi della genialità dello spirito). A questa dottrina – nelle sue linee di fondo rimasta immutata fino al 1700 – si collega una teoria dell'influsso astrale, che ravvisa un’influenza dei pianeti sul manifestarsi degli umori. Astro responsabile dell’inclinazione tetra e solitaria dei melanconici è Saturno, il "pianeta nero" associato alla figura mitologica di Crono/Saturno, nella concezione platonica rappresentante della più alta forza dell’intelletto, e in quanto tale dio dei filosofi e degli intellettuali.

Tra i motivi più affascinanti nella storia del pensiero (non solo) occidentale, la nozione di melanconia non ha cessato di evolversi e trasformarsi, caricandosi nei secoli di un’inesauribile varietà di sfumature e significati. Con la sua natura ambigua e misteriosa essa ha incuriosito, appassionato e non di rado consumato medici e psichiatri, teologi e religiosi, poeti e artisti, ispirando alcuni tra i capolavori della pittura e della letteratura, della musica e del teatro. E la sua forza enigmatica non ha, naturalmente, lasciato immune nemmeno il cinema, che ci consegna con Lars von Trier la più recente incarnazione dell’umor nero. Nell’omonima pellicola del regista danese, Melancholia è un pianeta che si avvicina inesorabile alla terra, minacciando, in una sorta di funesto corteggiamento, di colpirla. Ma nessuna suspense è data, ed è il prologo stesso a consegnarci l’atto finale della vicenda, disvelandone gli esiti in una serie di magniloquenti tableaux vivants scanditi dalle note del Tristano e Isotta di Wagner. Noto il tragico epilogo, stemperata la tensione, le maglie dello sviluppo narrativo si allentano per lasciare spazio al susseguirsi di frammenti in cui la potenza (emozionale, ma non di rado puramente formale) della parte diventa più importante del suo ruolo nello sviluppo del tutto. Un andamento simile a quello di The Tree of Life (2011) di Malick, spesso affiancato a Melancholia – al di là della contingenza della quasi contemporanea presentazione a Cannes – per una fitta serie di analogie (tra cui il tentativo di tenere insieme macrocosmo e microcosmo) e opposizioni (big bang vs fine del mondo, fiducioso fideismo vs cupo nichilismo).

Meno frequente, ma non meno rivelatore, l’accostamento con 4:44 Last Day on Earth di Abel Ferrara (2011), che ugualmente descrive un’umanità di fronte all’indubbia certezza della fine imminente (la spiegazione, tutt’altro che metafisica: "Al Gore was right"), e pone a sua rappresentanza, con un medesimo procedimento sineddochico, i personaggi di Willem Dafoe e Shanyn Leigh (e meriterebbe di essere interrogata più da vicino questa recente tendenza a disegnare una fine del mondo così ineluttabile, di fronte alla quale gli esseri umani non possono far nulla se non modulare infinite variazioni sul tema del rifiuto o della rassegnazione). Eppure, se in Ferrara la solitudine dei protagonisti trova un’apertura empatica al resto degli uomini che abitano un universo globale e globalizzato (di cui, con una curiosa insistenza, Skype diventa l’emblema), mai come in Melancholia la distruzione del Terra è una questione privata. Così lo sparuto gruppetto di individui smarriti ed egocentrici che si muovono sulla scena si riduce man mano, come in un gioco ad (auto)eliminazione (è così che di fatto escono di scena i principali personaggi maschili), alle due sorelle Justine e Claire (a ciascuna delle quali è intitolata una delle due parti del film) e al figlio di quest’ultima, sorta di ago della bilancia della loro diversità, misura del loro opposto atteggiamento di fronte all’incombere della catastrofe. L’animo razionale e controllato che Claire dimostra nel corso del matrimonio della sorella, nel suo ergersi a (vana) difesa di un rituale la cui insensatezza si fa più evidente a ogni istante, entra in crisi di fronte all’inspiegabile, ma mai così tangibile, sicurezza della fine. All’opposto la depressione di Justine sfocia in una quieta rassegnazione, in una mite – e a tratti fiera – accettazione del proprio destino.

Per quanto ci venga fin dall’inizio suggerita la relazione tra l’umore della donna e l’approssimarsi del corpo celeste, che esso sia la causa della malattia di Justine o una proiezione del suo malessere (o del malessere dell'umanità in generale) rimane incerto, mentre si impone con innegabile evidenza il progressivo rafforzarsi del magnetico legame tra i due. Se degli artisti rinascimentali – e poi Romantici – si diceva che trascorressero fatalmente la propria esistenza sotto l’influsso di Saturno, abbandonandosi a una disposizione tormentosa e angosciata, dal fascino oscuro ma irresistibile, allo stesso modo Justine non può fare a meno di contemplare Melancholia, e la sua attrazione è carica di una voluttà che si fa più intensa a ogni sguardo, fino a esplodere nella scena (tra le poche davvero capaci di scuotere nel profondo) in cui offre il proprio corpo nudo alla luce del pianeta. Ancora, se nel predisporre a una solitudine contemplativa il temperamento saturnino consente di volgere sul mondo uno sguardo più lucido, capace di cogliere ciò che resta normalmente celato, la protagonista si muove in bilico tra stato patologico e stato di illuminazione, in virtù del quale sembra entrare in contatto con un ordine superiore dell’universo (e del resto è lei stessa a rivelare a Claire di "sapere le cose"). Il personaggio di Justine rimane così sospeso tra il recupero di una tradizione artistica e filosofica e la sintomatologia – memore della lezione psicanalitica – degli odierni disturbi depressivi, la cui cura non può assumere altra forma se non, paradossalmente, il trionfo assoluto della malattia stessa.

Nell’(auto)compiaciuto ritratto della catastrofe che riserva all’umanità, von Trier affianca un’ossessiva ricerca formale agli stilemi del Dogma (i quali tuttavia riescono a non perdere la loro carica invasiva e disturbante), e nell’inseguire la perfezione ingabbia il film in un estetismo freddo ed esasperato, che cristallizza, finendo per svuotarlo, ciò che investe. A tale destino non sfugge l’impianto figurativo dell’opera, che pure aspira a sostanziarsi dello spessore dei propri antecedenti iconografici, modellandosi su di essi o incorporandoli in forma di esplicite citazioni, e in alcuni casi concedendosi – con qualche ridondanza – entrambe le strade. È il caso dell’Ofelia del preraffaellita John Everett Millais (1852), restituita nel prologo attraverso il corpo stesso di Kirsten Dust, e che riappare poco dopo riprodotta su un libro d’arte, nelle mani di una Justine ancora in lotta con il suo male, che sembra cercare in una pittura densa di pathos la forma tangibile, se non la spiegazione, dell’inafferrabile malessere che la annichilisce. Il gioco di ritorni coinvolge anche i Cacciatori nella neve di Pieter Bruegel (1565), opera-ponte che riporta alla mente la sua stessa apparizione in Solaris (1972), e avvia l’inesausto dialogo con l’universo simbolico tarkovskiano (i cavalli, le mongolfiere…) che attraversa per intero Melancholia (e del resto a Tarkovskij era dedicato Antichrist).

Attingendo alla ricchissima iconografia – pittorica e cinematografica – della melancolia (e sulla prima non si possono non ricordare le pagine magnifiche scritte da Klibansky, Panofsky e Saxl [1]), von Trier ci mette a confronto con opere dal rilievo indiscusso, e dal posto ormai consolidato nel nostro immaginario (si pensi anche al Davide con la testa di Golia, tra le ultime, sofferenti opere di Caravaggio). Eppure sembra incapace di restituirne – e rilanciarne – la profonda carica significante: il fitto tessuto di rimandi che il testo prova a intrecciare appare debole e inconsistente, al servizio di un progetto creativo fin troppo ambizioso, in cui la densità del senso è sacrificata agli eccessi calligrafici. Per quanto chiami in causa alcuni dei temi che più hanno saputo intrigare (e atterrire) l’umanità, e che si ripropongono oggi nella loro tragica urgenza, Melancholia pare incapace di parlare davvero del (e al) presente. Assomiglia piuttosto a un imponente specchietto per le allodole: un’opera che incanta al primo sguardo, ma, a volerla afferrare, si dissolve nel suo stesso tetro sfolgorio.

Note:
(1) R. Klibansky, E. Panofsky, F. Saxl, Saturno e la melanconia: studi di storia della filosofia naturale, religione e arte (1964), Torino, Einaudi, 1983.

 


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