Edward Hopper e Wim Wenders: scene di vita americane PDF 
di Chiara Renda   

Eward Hopper, pittore cinematografico

Nato nel 1882 il giovane Hopper ebbe come primi soggetti per i suoi quadri gli scenari della valle del fiume Hudson, ma ben presto si trasferì a New York per frequentare la New York School of Art. Tra i docenti c'era anche il pittore Robert Henri, portatore di una visione dell'arte tesa a liberarsi dal peso delle regole accademiche. Questi spinse i suoi allievi a smettere di copiare "brocche d'acqua e banane" e a concentrarsi invece sulla vita della metropoli e sui propri sentimenti di fronte ad essa. Fu così che Hopper si mise a ritrarre la realtà cogliendone più degli altri allievi il lato malinconico e il senso di solitudine. Nel 1906 egli partì per l'Europa, dove non frequentò alcuna scuola, ma si dedicò alla sperimentazione di tecniche simili a quelle degli impressionisti, dipingendo dal vivo soprattutto la vita parigina. Il tema della luce divenne ben presto il fulcro della sua ricerca, e nei suoi tre viaggi in Europa potè ammirare i risultati ottenuti da Degas, Courbet, Monet.

Frutto di questo studio è per esempio "Summer interior" del 1909, nel quale già si ritrova il motivo della figura sola e malinconica in una stanza, motivo che diventerà caro al pittore americano. Per quanto riguarda la luce anche la lezione di Vermeer sarà fondamentale: è dal maestro olandese infatti che Hopper mutua il senso del rigore compositivo, della misura e l'effetto misterioso di luci e atmosfere. Oltre all'attività di illustratore, che gli permise di vivere fino ai quarant'anni circa, egli portò avanti anche l'incisione, che gli consentì di individuare quelli che poi sarebbero stati i soggetti prediletti della sua pittura. Un esempio di queste incisioni è Night Shadows (1921), che in un'inquadratura estremamente cinematografica ritrae un viandante notturno visto dall'alto.

E' invece al 1925 che risale il celebre House by the Railroad, metafora dell'invasione della natura da parte della civiltà, ma soprattutto modello di Hitchcock per il motel in cui è ambientato il film Psycho. Anche per altri dipinti possiamo accostare l'attività di Hopper ad alcune opere del regista. Basti pensare ad un film come La finestra sul cortile (1954), in cui un uomo costretto su una sedia a rotelle diventa testimone dalla sua finestra prima di scene quotidiane che avvengono nel palazzo di fronte, e poi addirittura di un delitto. Si tratta dello stesso principio, dello stesso occhio indagatore di alcune opere di Hopper, come ad esempio Night Windows (1928), in cui è inquadrato di notte l'angolo di un palazzo con le sue tre finestre illuminate. Mentre il vento muove la tenda di una finestra, attraverso un'altra si intravede il corpo di una donna di spalle, che probabilmente è occupata nelle faccende domestiche.

Altra scena quotidiana colta dall'esterno attraverso una finestra è quella di Room in New York (1932), in cui è evidente l'alienazione e l'incomunicabilità all'interno della coppia: l'uomo legge il giornale e la donna strimpella svogliatamente il pianoforte, come in attesa che lui abbia finito. Dice Hopper a proposito di questo dipinto: "L' idea di Stanza a New York mi è venuta in mente molto prima che lo dipingessi. Mi è stata suggerita dagli interni illuminati che vedevo quando camminavo di notte per le strade della città". E questa stessa atmosfera suggeriscono tutti i quadri raffiguranti la malinconica solitudine di chi sorseggia un caffè in una tavola calda o di chi legge un libro in una stanza d'albergo o nello scompartimento di un treno. E' per la raffigurazione di questa quotidianità disillusa che i dipinti di Hopper ci appaiono come scene pronte a diventare soggetti cinematografici, perché sono immagini a noi familiari e ormai radicate nella nostra memoria spesso anche grazie ai film.

E' per la scelta di questi soggetti che egli è considerato uno dei massimi esponenti del realismo americano del Novecento: si pensi a Nighthawks (1942) o a Gas (1940). Rappresentando questi luoghi (bar semideserti, stazioni di benzina…) Hopper ha dipinto quelle che sono le icone dell'America contemporanea, icone ormai radicate anche in animi non americani. Hopper ci parla infatti di situazioni universali, situazioni che scandiscono la vita quotidiana di ognuno di noi: quegli attimi in cui ci troviamo a scambiare quattro chiacchiere con uno sconosciuto in un bar sorseggiando l'ultimo bicchiere della serata, i momenti di riflessione davanti a una tazza di caffè, le passeggiate in una strada deserta la domenica mattina presto. La sua attenzione si rivolge inoltre continuamente alla dimensione del viaggio e del movimento; basti pensare alle figure rappresentate a bordo di treni, come la donna sola di Compartment C, Car 293 (1938) e i pochi personaggi di Chair Car (1965).

E' ancora alla dimensione del viaggio che rimandano le numerose figure rappresentate all'interno di camere di motel: è questa infatti una tipica situazione che ci isola dalla ripetitività della vita di tutti i giorni e ci costringe a riflettere su noi stessi e sulla nostra condizione. Il motel, con la sua impersonalità è spesso un luogo intimo, di raccoglimento, un luogo che ci spinge ad analizzare la realtà lontano da condizionamenti. Ma anche quando non rappresenta figure in viaggio Hopper è capace di far trasparire dai suoi paesaggi un notevole senso di movimento; gli scorci da lui scelti infatti ricordano fotografie scattate da un viaggiatore in continuo spostamento, fotografie scattate on the road.

Vedute di paesaggi come questi non possono non rimandare all'opera di alcuni registi come David Lynch, Martin Scorsese, Wim Wenders; si tratta infatti di quel paesaggio americano senza un centro e senza punti di riferimento, in cui tutto sembra diventare possibile. Ed è appunto questa la bellezza del paesaggio americano; non sono monumenti o palazzi,ma motel, villette a schiera, stazioni di servizio e grattacieli che ci vengono in mente quando pensiamo al Nuovo Mondo, elementi ampiamente sfruttati come ambientazioni di molto cinema, americano e non. In Hopper questi scenari divengono espressioni dei momenti di comunicazione tra gli uomini o del loro trovarsi distanti. Spesso queste sue figure malinconiche lasciano a dominare la scena angoli di città o di periferia abbandonata, che superano la semplice descrizione della realtà per trasformarsi in immagini evocative e universali.

Wim Wenders, un europeo verso il sogno americano

"America, terra di immagini.
Fatta di immagini.
Fatta per le immagini.
Anche la stessa scrittura s'è qui visualizzata
Più che in ogni altro paese.
Con una fantasia che non conosce limiti,
le lettere e i numeri
si sono mutati in segni, in nuove icone.
Immagini e segni ovunque,
su enormi pannelli, fotografie, dipinti, luci al neon.
Mai come qui diventati un' arte.
Mai una tale inflazione di segni come in America.
Mai un tale onere per gli occhi,
tanto superlavoro.
Mai così sfruttato il vedere,
al servizio della seduzione.
Perciò tanti desideri, tanti bisogni,
perché nessun luogo stimola tanta bramosia visiva.
Mai tanta assuefazione visiva come in America."

Wim Wenders, Il sogno americano, (marzo/aprile 1984)

E' questo lo sguardo di un europeo alle prime esperienze in un continente sconosciuto, ma tanto sognato e vagheggiato fin dall'infanzia perché osservato al cinema. Il cineasta tedesco, nato a Dusseldorf nel 1945, afferma infatti di essersi sentito attratto dalla civiltà americana fin da ragazzo, grazie anche alla letteratura (i romanzi di Chandler) e alla musica rock.

Dopo aver intrapreso gli studi di medicina, poi abbandonati per quelli di filosofia, Wenders decide di dedicarsi alla pittura. Lascia così la Germania alla volta di Parigi, dove lavorerà come incisore a Montmartre. Qui a Parigi una felice scoperta è per Wenders la Cinemathèque, dove vede soprattutto commedie americane e film western.Tornato in Germania, a partire dal 1967 inizierà a dedicarsi praticamente al cinema in veste di regista. In ragione della predilezione per il cinema americano "classico" (Hitchcock, Ray, Fuller, Ford) e dell'assidua frequentazione della Cinemathèque parigina, Wenders è stato spesso accomunato ai registi facenti parte del fenomeno del Nuovo Cinema Tedesco.
L'obiettivo di questi autori (tra cui Fassbinder e Straub) era rendere manifesta nei loro film l'ammirazione per il cinema americano, ma allo stesso tempo, sotto l'influenza della Nouvelle Vague francese, apportare a questo modello degli elementi di novità, soprattutto a livello di scrittura. Il Nuovo Cinema Tedesco tende infatti a recuperare i cosiddetti "momenti morti" della tradizionale drammaturgia, "attraverso la non ellitticità della narrazione, la rarefazione del montaggio, la parsimonia nell'uso di dialoghi"(Filippo D'Angelo. Wim Wenders, Il Castoro. La Nuova Italia. 1982). A proposito di lentezza nella narrazione Wenders dichiara :"Nessun avvenimento è così poco importante da doverlo affrettare, abbreviare o addirittura eliminare, solo per far posto ad un altro più avvincente o più importante". Emerge dunque quella che è stata la sua esperienza pittorica; il suo è un cinema sempre attento alla dimensione formale della rappresentazione, un cinema in cui la dilatazione della narrazione (e quindi del tempo) è funzionale all'analisi della realtà. Poiché secondo il regista il cinema non può risolversi nel dinamismo della velocità, ma è necessaria la contemplazione, atteggiamento caratteristico dell'arte pittorica. In quest'ottica descrittiva di narrazione tipica del cineasta tedesco l'universo americano non si riduce a semplice riferimento estetico, ma assorbe spesso l'intero film, l'ambiente e i personaggi. Ciò che immediatamente balza agli occhi davanti a un suo film è l'importanza attribuita al paesaggio, elemento che spesso sottolineando l'alienazione del personaggio diviene protagonista.

"Per me i paesaggi non sono solo scenografie" dice il regista "ma un elemento attivo come gli attori e portano altrettanta emozione". I suoi paesaggi ci riportano alla mente inevitabilmente quelli di Hopper, il loro stesso senso di sospensione, di perdita di punti di riferimento. Ed in questi scenari gli inquieti personaggi di Wenders e di Hopper sembrano sempre in attesa di un cambiamento; se non sono fermi ad aspettarlo in atteggiamento riflessivo, sono in viaggio, alla ricerca di qualcosa che rivoluzioni le loro esistenze. Lo stesso Wenders ha definito i quadri del pittore americano come "inizi di storie", "inizi di un film americano", come esempio di una delle analogie della sua pittura con l'espressione cinematografica.

La condizione dei personaggi di Wenders e Hopper sembra quella di essere perennemente stranieri, di passaggio, alla ricerca della propria identità. Per ottenere questa sensazione Wenders nei suoi film riduce la storia agli elementi essenziali e dilata la visione di luoghi e scenari, dello spazio della narrazione. Ed in questi scenari, popolati da continui rimandi al mondo americano, ed in particolare dalla presenza quasi costante di televisione, radio, juke-box… i suoi personaggi sembrano quasi cercare una propria storia. Dice giustamente Kral ("Deviazione per l'America: sulle tracce di Wim Wenders", in Wim Wenders. Quaderno del Circuito Cinema. Venezia, 1985) che sono uomini che vivono "dietro le quinte", ma che allo stesso tempo sembrano rievocare il comportamento e l'aspetto dei divi del cinema o della televisione, mezzi ai quali essi si accostano di continuo. Questo perché, dice Kral, "su uno schermo come in un giornale, i personaggi di Wenders cercano innanzitutto una storia, un dramma nel quale potrebbero essere loro stessi i protagonisti".

Alice nelle città (1973)

Il motivo del viaggio inizia a caratterizzare il cinema di Wenders a partire dai primi lungometraggi, in particolare con la cosiddetta "trilogia del viaggio", costituita da Alice nelle città (1973), Falso movimento (1974) e Nel corso del tempo (1975), tutti e tre aventi per protagonista l'attore tedesco Rudiger Vogler. Il viaggio costituisce il tema fondante di tutta la trilogia, quasi un co-protagonista al pari di Vogler. E' questo continuo essere in movimento e in balia degli eventi che conduce il personaggio ad una crescita interiore e ad un'evoluzione alla fine del film. Wenders riprende quindi il motivo del road movie americano, svuotandolo però del suo aspetto più spettacolare e aggiungendo un'impronta intimista tutta tedesca ereditata dal "romanzo di formazione" ottocentesco. La trilogia si apre con Alice nelle città ed in particolare con Felix, giornalista tedesco in viaggio per scrivere un reportage sugli Stati Uniti, intento a scattare fotografie sotto un pontile di una spiaggia deserta. Dopo aver scattato diverse foto con la sua Polaroid Felix si dirige verso la sua macchina e accende la radio; ecco subito comparire un elemento tipicamente wendersiano. Quando l'auto parte ci troviamo a percorrere quel tipico paesaggio americano che ritroviamo nei quadri di Hopper, un paesaggio fatto di insegne luminose, cartelloni pubblicitari, stazioni di servizio. Punto di svolta per l'andamento del film è il suo incontro con Alice e sua madre.

Scenario di questo incontro non poteva che essere un aeroporto, luogo di passaggio per eccellenza. Tutta la trilogia sarà caratterizzata da immagini di aeroporti, stazioni, strade e di ogni tipo di mezzo di trasporto; dall'auto al treno, dall'aereo al side-car. Lungo tutto il film, dopo che la mamma di Alice lascerà la bambina con Felix, assisteremo dunque all' instaurarsi di un rapporto di complicità fra i due, spesso fatto di litigi, capricci (dell'una o dell'altro) e soprattutto di naturalezza.

E' grazie al viaggio intrapreso con Alice alla ricerca dei nonni e della madre che Felix può riscoprire i suoi ricordi e riacquisire uno sguardo innocente. Questo percorso dall' America all'Europa oltre che dai continui viaggi in aereo, auto, battello, è costellato dal ricorrere di interni in stanze di motel (spesso con televisori annessi) e bar con juke-box. Il televisore è un motivo ricorrente nel cinema di Wenders; ed in genere, come in questo caso si tratta di un elemento di fastidio per i personaggi. Quello di Felix dall'America all' Europa si rivela come un percorso di rinascita, di riscoperta della naturalezza della visione per un occhio ormai sopraffatto dalle immagini. Ed il fatto che tutte queste immagini tipiche del paesaggio americano (e tipiche dei quadri di Hopper) come insegne luminose, cartelli…non siano a colori ma in bianco e nero, è forse indizio di questo ritorno all'origine della visione, ad uno sguardo incontaminato.

Falso movimento (1974)

Il bisogno di un ritorno alle origini spinge Wenders per il film seguente alla ricerca di un soggetto appartenente alla cultura letteraria tedesca: il Wilhelm Meister di Goethe.

In questo film girato nel 1974 quello che era l'aspetto più fresco e quasi comico di Alice viene eliminato per dar vita ad un film dalla connotazione esplicitamente filosofica in cui si tratta il rapporto Arte/Vita ambientando nella contemporaneità un romanzo ottocentesco. Questa volta però Wenders non lascia trapelare nessuna speranza di evoluzione nel personaggio e alla fine del viaggio il disilluso Wilhelm capirà che non è possibile alcun rinnovamento. Questo suo viaggio nasce dal desiderio di trovare l'ispirazione per la stesura del suo romanzo.

Come un personaggio di Hopper Wilhelm guarda i paesaggi che scorrono davanti ai suoi occhi dal finestrino di un treno o di un'auto; o osserva la gente che affolla una piazza dall'alto di una finestra. La sua condizione è simile a quella del Felix di Alice all'inizio del film: un uomo che ha perso la fiducia nel potere comunicativo della parola o che comunque non riesce ad esprimere le sue idee con un linguaggio adeguato. Alla fine del viaggio Wilhelm arriverà ad accettare l'inconciliabilità del rapporto Arte/Vita e dunque a rendersi conto dell'inutilità del suo ruolo di artista. E proprio nell'inquadratura finale del film lo ritroviamo con in mano una valigia intento a osservare il paesaggio. Questo personaggio wendersiano ci ricorda in qualche modo alcuni uomini dipinti da Hopper, uomini disillusi, disincantati, delusi dalla vita, che hanno rinunciato ad assumere un ruolo attivo nella comunicazione con gli altri. Con la differenza però che Wilhelm sembra assumere questo stesso atteggiamento in piena giovinezza, senza aver vissuto le esperienze che hanno condotto gli attempati personaggi di Hopper alla disillusione. Egli sembra rinunciare a priori alla comunicazione.

Nel corso del tempo (1975)

L'ultimo film della trilogia è anche quello in cui il motivo del viaggio viene portato al limite, esasperato in un continuo susseguirsi di viaggi compiuti con ogni tipo di mezzo di trasporto, dal camion al side-car. Come in Alice nelle città Wenders sceglie il bianco e nero come mezzo più realistico e naturale (secondo la sua visione) rispetto al colore per esprimere alcuni motivi come l'incomunicabilità e la crisi interiore di un personaggio. Si tratta di un film pressoché privo di trama, la cui sceneggiatura è stata scritta durante la lavorazione.

Il titolo evidenzia l'aspetto principale del film, lo scorrere del tempo, e di conseguenza la scelta del regista di soffermarsi su ogni minimo avvenimento, anche se privo di un rilievo evidente. Balza agli occhi immediatamente la lentezza della narrazione, lentezza che per Wenders significa rispetto per i fatti narrati e per i personaggi. Nasce così un film in cui attraverso gli scarni dialoghi tra i personaggi si assiste all' instaurarsi di un'amicizia tra due sconosciuti. E proprio il ruolo secondario affidato al linguaggio ci porta a soffermarci maggiormente sulle immagini che scorrono davanti ai nostri occhi: Nel corso del tempo è un film fatto di strade, auto, stazioni di benzina, sigarette…Tutto ciò è un continuo rimando alla pittura di Hopper e agli elementi che la caratterizzano.

Questo road-movie mette in evidenza ancora una volta la conquista di un'evoluzione interiore attraverso un'esperienza di vita quale è il viaggio. Il viaggio, come spesso accade nei film di Wenders, è una condizione esistenziale che determina nei personaggi la presa di coscienza dello scorrere del tempo, e dunque la possibilità di cercare la propria identità.

L'essere in movimento per il regista non significa muoversi da un punto A per arrivare al punto B secondo un percorso stabilito; spesso i suoi personaggi si muovono senza sapere dove questo loro vagabondare li condurrà. Sembra che l'amicizia fra i due protagonisti nasca per la necessità di percorrere quel tratto di vita insieme; nonostante la loro difficoltà di comunicazione e i loro diverbi i due paiono infatti destinati a rimanere vicini e a stringere quel tipo di amicizia virile così spesso citato dai film americani, dal western al road-movie (si pensi a Easy Rider [1969] di Dennis Hopper). Nel corso del tempo è, come Alice nelle città, un film in cui la dimensione dell'infanzia (lo scambio di Robert della sua valigia con il quaderno del bambino alla stazione) e la riscoperta del passato assumono un'importanza fondamentale per la crescita. Una crescita che si riferisce anche al linguaggio del Cinema, che secondo Wenders deve tornare a svolgere la sua funzione originaria: descrivere la realtà per immagini, e non bombardare l'occhio dello spettatore di immagini spettacolari.

L'amico americano (1976-77)

Oltre alla trilogia del viaggio sono altri due i film di Wenders che più ci ricordano Hopper: L'amico americano (1976-77) e Paris, Texas (1984). Il primo ha come soggetto il romanzo di Patricia Highsmith Ripley's Game, pubblicato nel 1974.

La storia narra di un corniciaio gravemente ammalato (Jonathan Zimmermann) e ormai costretto a vivere per poco tempo, che viene convinto da un americano (Tom Ripley) a compiere due omicidi. L'azione si svolge tra Amburgo, luogo in cui il corniciaio vive; Parigi, dove viene commesso il primo omicidio e New York, dove si trova il pittore Derwatt (interpretato da Nicholas Ray). Fin da subito l'ambientazione ci ricorda l'atmosfera dei dipinti di Hopper: la casa di Zimmermann vicino al porto e le strade di Amburgo sono riprese da Wenders con un taglio pittorico. Inoltre ciò che colpisce è che tutti gli stereotipi del poliziesco, come i gangster, le pistole, gli inseguimenti compiuti da Zimmermann, risultino privi del significato e del fascino che normalmente al cinema gli si attribuisce. Le azioni compiute dal protagonista risultano estremamente goffe, quasi comiche quando lo si vede nei panni del killer. Quando lo osserviamo intento a inseguire la sua vittima nella metropolitana parigina ci troviamo di fronte ad un uomo che si distrae di continuo, si addormenta, addirittura si ferisce.E la sua goffaggine risulta ancor più evidente durante il secondo omicidio compiuto in treno insieme a Tom Ripley, che rappresenta invece il classico affascinante gangster dei polizieschi tanto amati da Wenders (anche se dotato di una maggiore umanità). Questa sequenza risulta nella sua tensione alquanto comica e il suo montaggio ricorda quasi la costruzione di una situazione alla Blake Edwards.

Wenders gioca volutamente con gli stereotipi del film poliziesco, grazie anche all'uso del colore: la fotografia di Robby Muller tende ad enfatizzare l'artificialità delle scene tramite il contrasto tra colori caldi e freddi. Quest'uso del colore, insieme al gusto iperrealista per il dettaglio, ci rimanda alla pittura di Hopper e ai suoi toni accesi. Inoltre molto spesso gli interni dipinti dal pittore americano hanno un'atmosfera da film poliziesco (si pensi a Nighthawks).

I viaggi di Zimmermann hanno ambientazioni tipicamente hopperiane; basti pensare alla metropolitana e alle strade parigine, tempestate di caffè, cartelloni pubblicitari e manifesti, come in "Due o tre cose che so di lei" (1967) di Jean-Luc Godard. C'è poi durante il viaggio in treno del protagonista un'immagine di un uomo che divide con lui lo scompartimento: si tratta di un uomo con un cappello in testa e un cane al guinzaglio. La sua figura sembra uscita da un dipinto di Hopper degli anni Cinquanta, sia per il suo abbigliamento, sia per l'ambientazione della scena.Inoltre è impossibile non ritrovare in Tom Ripley, con il suo cappello da cow-boy, quel fascino tipicamente americano che, a partire dai romanzi di Chandler ha attratto e continua ad attrarre gli animi di tutta Europa, e dunque anche quello di Wenders.

Paris, Texas (1984)

Un altro film che rimanda alla pittura di Hopper è Paris, Texas, scritto da Wenders insieme a Sam Shepard. Il film si apre con una lunga ripresa del deserto, finchè non si arriva a scorgere la figura di un uomo che vaga: si tratta di Travis. Dopo essere svenuto, l'uomo viene raggiunto dal fratello (Walt), col quale intraprende un viaggio in macchina che li riporta a Los Angeles, dove Walt vive con sua moglie e il figlio di Travis, Alex (che abita lì dalla separazione dei genitori). In seguito a questa convivenza inizia un delicato avvicinamento tra padre e figlio, che sfocia nella decisione di intraprendere un nuovo viaggio in auto verso Houston, alla ricerca della madre di Alex. Qui Travis incontra Jane (N. Kinski) attraverso il vetro di un peep-show e le racconta la storia del loro amore senza svelare la propria identità; e la donna, riconosciutolo, decide di andare nell'albergo dove padre e figlio alloggiano. Nella scena finale, mentre madre e figlio si ricongiungono, Travis si allontana osservando la finestra illuminata dalla strada.

Ancora una volta per Wenders un film fatto di spostamenti, viaggi in auto, hotel, strade. Per quest'opera lo stesso Wenders dichiara di essersi ispirato alla pittura di Hopper e alla fotografia di Walker Evans. Quella di Paris, Texas è un'America colorata, tempestata di manifesti (Walt lavora in una fabbrica di cartelloni pubblicitari), insegne di motel, in cui i momenti di autentica comunicazione e avvicinamento tra i personaggi si svolgono per lo più in viaggio, in auto, o (come nel finale) in una camera d'albergo.

E' questo il momento per eccellenza di riscoperta della propria identità e di comunicazione fra i personaggi secondo Wenders. Ma già Hopper sembrava pensarla così, se tante volte nella sua vita si è soffermato sul tema del viaggio, dello spostamento, e ha dipinto tanti mezzi di trasporto e stanze d'albergo. Ancora una volta dunque ci troviamo di fronte a paesaggi tipicamente hopperiani, i cui protagonisti in questo caso sono padre e figlio.

Un tratto tipicamente wendersiano di Paris, Texas è la difficoltà di comunicazione iniziale, superata poi da padre e figlio senza troppi dialoghi, ma grazie a piccoli gesti di complicità. Ancora una volta la forza dell'infanzia permette ad un adulto la riacquisizione della propria identità. C'è una novità in questo film che dimostra una maturazione avvenuta nell'animo del regista: la presenza femminile, alla quale questa volta è attribuita un'importanza considerevole rispetto ai film precedenti, e che d'ora in avanti assumerà per Wenders sempre maggiore rilievo. Nastassja Kinski in questo film assume un ruolo che ricorda tante delle tristi donne dipinte da Hopper, donne con un passato felice alle spalle ma che nel presente, se si osservano i loro sguardi, sembrano costrette in una dimensione di rassegnazione e isolamento (si pensi alle donne di "Hotel Room", Eleven A.M., Morning Sun, A Woman in the Sun e Nighthawks

 


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