Il Cinema Ritrovato, XXIII edizione PDF 
Francesca Druidi   

Questa che stiamo vivendo è la stagione dell'esplosione del 3D. Ma l’esperienza della visione cinematografica riscopre, come ogni anno, il suo fondamento ontologico nelle proiezioni che animano il grande schermo di Piazza Maggiore, in occasione delle serate della 23esima edizione del festival Il Cinema Ritrovato, promosso dalla Cineteca di Bologna e tenutosi quest’anno dal 27 giugno al 4 luglio, e poi per la rassegna Sotto le stelle del cinema, che si svolgerà per tutto il mese di luglio. In uno scenario decisamente unico e suggestivo, il pubblico si è accalcato numeroso in ogni spazio a disposizione sul Crescentone, invadendo anche le gradinate di San Petronio e i portici della Piazza, per ammirare, rivedere o apprezzare per la prima volta capolavori filmici riportati al loro antico splendore. Sono in molti, infatti, a non aver voluto mancare l’appuntamento con Scarpette rosse – fiammante e crudele capolavoro di Michael Powell ed Emeric Pressburger, in un restauro di UCLA Film & Television Archive con The Film Foundation, che ne ha recuperato il vertiginoso Technicolor –, La folla di King Vidor, Senso di Luchino Visconti, il cui splendido restauro è stato presentato all'ultimo Festival di Cannes, e Il buono, il brutto e il cattivo di Sergio Leone, promosso da Cineteca di Bologna, CSC - Cineteca Nazionale, con il sostegno di Sky e della famiglia Leone e grazie alla collaborazione del produttore Alberto Grimaldi. È stata ancora una volta una programmazione intensa e ricca di spunti, che ha permesso alla rassegna di superare la soglia dei cinquantamila spettatori nel corso delle otto giornate del festival, ospitando oltre mille accreditati, di cui la maggior parte stranieri provenienti da 47 Paesi. Tra i leitmotiv che hanno attraversato il cartellone delle proposte, emergono con grande attualità e vigore le riflessioni sull’impiego del colore nel tessuto narrativo e stilistico delle pellicole, sulle difficoltà del processo creativo e realizzativo del film stesso e sulla passione per l’arte cinematografica nel suo complesso.

L’inferno di Clouzot 
Esempio emblematico di film che, proponendo un progetto mai visto nelle sale da un pubblico, sottolinea con forza le sfide, e le insidie, innescate dalla creazione di un’opera d'arte, è L’enfer d’Henri-Georges Clouzot, inserito nella sezione Ritrovati&Restaurati del festival, che procede sulle tracce della misteriosa pellicola irrisolta del maestro del cinema francese Henri-Georges Clouzot. Quello che si presentava a tutti gli effetti come un kolossal si è presto trasformato in un’opera maledetta, dopo che le tormentate riprese nel 1964 furono interrotte a causa dell'infarto che colpì il cineasta. Quindici ore di girato, raccolte in 185 bobine, rappresentano l’eredità del “sogno” del regista, che la vedova di Clouzot ha affidato a Serge Bromberg e a Ruxandra Medrea. Da questa concessione nasce un documentario, L’enfer d'Henri-Georges Clouzot appunto, che ricostruisce le diverse fasi del mancato completamento della pellicola, assemblando una serie di interviste ai collaboratori di Clouzot – tra cui l’attrice Catherine Allegret, l'allora aiuto regista Costa-Gavras, il compositore Gilbert Amy e l’assistente operatore William Lubtchansky –,  l’interpretazione contemporanea in chiave teatrale di alcune scene presenti nella sceneggiatura originale ma non recuperate, e soprattutto le immagini girate durante le tre settimane di riprese, le uniche esistenti dopo l’interruzione del film, ritenute perdute e rimaste sostanzialmente invisibili fino al 2005. L’ossessione patologica di un marito, Marcel Prieur (Serge Reggiani), che trasforma la gelosia nei confronti della bella moglie Odette (interpretata dall’allora star Romy Schneider) in una vera e propria malattia mentale, scandita da allucinazioni e incubi a occhi aperti sui tradimenti della donna, doveva essere il cuore pulsante della pellicola che il cineasta aveva intenzione di girare. Gran parte delle sequenze ritrovate è, infatti, concepita come una lunga soggettiva del marito, che insegue e pedina la moglie, immaginandola in momenti scabrosi e in situazioni di intimità con amanti e donne dalla dubbia reputazione. Se la vita quotidiana della coppia, che gestisce un albergo in una località di villeggiatura d’oltralpe, è raccontata in bianco e nero, le visioni disturbate dell’uomo sono contraddistinte dall’utilizzo di viraggi di colore ipnotici e da giochi di luce e ombre ed effetti ottici, che hanno come fulcro il volto espressivo di Romy Schneider. Clouzot è però talmente immerso nella storia e nel labirinto psicologico in cui è racchiuso il suo protagonista da perdere progressivamente il controllo sul film, che non può contare sulla supervisione organizzativa di un produttore. Il filmmaker non riesce più a coordinare l’azione delle diverse unità registiche coinvolte, gira e rigira scene già terminate, mai soddisfatto del risultato. I tempi si allungano, i ritardi si accumulano inesorabilmente, il rapporto con la troupe e gli attori si fa sempre più teso. Reggiani abbandona improvvisamente il set e, pochi giorni dopo l’uscita di scena del protagonista, il regista si sente male e il film viene definitivamente abbandonato. L'enfer propone, in definitiva, un drammatico caso di identificazione estrema tra il regista e la propria opera.

Alla ricerca del colore dei film
Una preziosa sezione del festival ha riunito alcuni degli usi più interessanti del colore nella storia del cinema, partendo dagli antichi film colorati a mano, lavori di Méliès e di de Chomón, passando per i primi sistemi completi a colori (Chronochrome, Kinemacolor di Gaumont) e i primi esperimenti in Technicolor. Ad esempio, Redskin di Scherzinger, sorta di variazione pellerossa di Romeo e Giulietta, dove si racconta la travagliata storia d’amore tra un navajo interpretato da Richard Dix e una ragazza della tribù dei pueblo. Fiore all’occhiello della sezione, oltre al restauro del complesso Pierrot le Fou (1965) di Jean-Luc Godard, mirabile opera manifesto del cineasta francese (“Il cinema è come una battaglia: amore, odio, azione, violenza, in una parola emozione”, fa dire a Smaule Fuller che compare nella diegesi all’interno di una festa) caratterizzato da una grande libertà espressiva e da soluzioni cromatiche (virate su blu, rosso e giallo), visive e linguistiche di incredibile sperimentazione figurativa, la maestosa potenza del Technicolor a tre matrici espressa da opere come La più grande avventura (Drums along the Mohawk) di John Ford, Pandora di Albert Lewin e Scarpette rosse. Ispirata all’omonima fiaba di Andersen, questa pellicola, pur risalendo al 1948, conserva inalterate la sua potenza e la sua modernità. Film per eccellenza sulla passione, sul bisogno fisico di esprimere la propria arte e la propria creatività (risponde la ballerina Vicky Page/Moira Shearer all’impresario Lermontov che le chiede perché vuole ballare: “Perché vuoi vivere?”), Scarpette rosse è il settimo lavoro girato in coppia da Michael Powell ed Emeric Pressburger e coniuga perfettamente la dimensione del kolossal con le più innovative sperimentazioni stilistiche. La storia, ambientata nell'Inghilterra degli anni ‘40, si configura come una sorta di triangolo tra la giovane ballerina Vicky, l’ambizioso impresario e coreografo Lermontov (Walbrook), che in questo caso identifica il richiamo alla danza, al sacro fuoco dell’arte come priorità in nome della quale compiere immani sacrifici, e il talentuoso compositore Julian Craster, che si innamora ricambiato della ballerina. Quando però le ragioni del cuore e quelle del ballo entreranno in drammatica rotta di collisione tra loro, la decisione di Vicky sarà definitiva. La fotografia espressionista di Jack Cardiff, la perfetta scenografia e l’astrazione stilistica della sequenza chiave del film, il balletto “Scarpette rosse” interpretato da Vicky, girato con un’eccezionale fluidità e continuità di movimento in piena sinergia con la musica, rendono la pellicola un melodramma indimenticabile, tra i più feroci e veri sul legame quasi indissolubile che unisce l’artista (musicista, pittore, regista, cantante, attore o scrittore che sia) alla propria arte.

Se La più grande avventura è il primo film a colori di John Ford nel quale, attraverso le gioie e i dolori di una giovane coppia di sposi – Henry Fonda e Claudette Colbert – appena trasferitasi nel West, racconta la “nascita di una nazione” intrecciando sapientemente i destini di una famiglia a quelli più estesi di una comunità e di uno Stato che sta sorgendo sulle s(m)orti della guerra di indipendenza, Pandora è invece uno spudorato e barocco melodramma che riaggiorna la leggenda dell’olandese volante, destinato in questo caso a vagare senza sosta per i mari agognando la pace eterna, che potrà essere raggiunta solo grazie al sacrificio di una donna disposta a morire per amor suo. È questa la strada tracciata per i protagonisti della pellicola di Lewin: Hendrick van Der Zee (James Mason) e Pandora Reynolds (una sontuosa e lussureggiante Ava Gardner), femme fatale per antonomasia, che fa strage di cuori tra gli uomini di una comunità inglese imbevuta nel lusso della Costa Brava negli anni Trenta. L’uso simbolico del Technicolor, uno stile di ripresa quasi onirico, scelte estetiche votate al surrealismo e all’integrazione di elementi dissonanti (ad esempio il jazz e le statue classiche) esaltano le opposizioni binarie come amore e morte, ritrovamento e perdita, e quell’etica della rinuncia, del sacrifico e della predestinazione che costituiscono i perni fondamentali sui quali si innesta l’immaginazione melodrammatica. Mozzafiato è poi il CinemaScope di La belva di William Wellman, tratto dal romanzo Track of the Cat (titolo originale del film) di Walter Van Tilburg Clark. La minaccia di un puma nero, che mai si concretizza nella diegesi se non a livello sonoro, si fa incombente per il bestiame della famiglia Bridges, allevatori della California del nord. I due figli maggiori, Arthur (William Hopper) e Curt (Robert Mitchum), agli antipodi per personalità e atteggiamento nei confronti della vita, guidati dalle visioni dell’indiano Joe Sam, decidono di partire per stanarlo. La figura incombente, quasi mitica, del puma nero richiama il rapporto dell’uomo in lotta con la natura selvaggia e incontaminata, ma il tema dominante del film risiede piuttosto nella personale battaglia che avviene nell’anima dell’uomo stesso, impegnato nel tentativo di affermare la propria identità superando le proprie fragilità. La narrazione prosegue, infatti, su due fronti: la caccia di Curt, uomo irruente e arrogante, spalleggiato dalla dispotica e bigotta madre ma disprezzato dalla sorella Grace, rimasta nubile, e temuto dal fratello minore Harold, che avviene negli spazi aperti di uno scenario montano inospitale e solitario, e le dinamiche familiari e psicologiche che nel frattempo deflagrano tra le mura domestiche, in un’atmosfera sempre più opprimente e compromessa da sentimenti di astio e di rivendicazione tra i diversi componenti del microcosmo familiare, tra un padre ubriacone e Harold che combatte con l’appoggio della fidanzata Gwen per guadagnarsi un proprio ruolo all’interno della famiglia, fuori dall’ombra di Curt. Cruciale, nel tessuto figurativo del film, è la sovradeterminazione semantica prodotta dal colore e resa ottimamente dalla fotografia di W.H. Clothier, che restituisce una gamma di bianchi, grigi e neri dove a rifulgere è il rosso della giacca di Curt/Robert Mitchum.

Scarpette rosse e lo stato febbrile dell’arte
A presentare il nuovo restauro di Scarpette rosse, promosso da UCLA Film & Television Archive, in collaborazione con BFI, la Film Foundation di Martin Scorsese, ITV Global Entertainment Ltd. e Janus Film, è stata la grande montatrice Thelma Schoonmaker, ultima moglie del regista Michael Powell, oggi particolarmente impegnata nel recupero e nella conservazione del lavoro del marito. La montatrice, tre volte premio Oscar, ha introdotto a Bologna non solo il film proiettato in Piazza Maggiore il 27 giugno scorso, ma ha anche di fatto inaugurato la 23esima edizione della manifestazione partecipando nel pomeriggio a un incontro con il direttore artistico del festival Peter von Bagh, svelando alcuni retroscena della realizzazione del film e sottolineando in particolare l’importanza assunta dalla pellicola nella storia del cinema. "Scarpette rosse – rimarca Thelma Schoonmaker – dimostra l’abilità di Michael Powell nel mantenere un controllo eccezionale su ogni aspetto della cinematografia, dai costumi ai movimenti di macchina, al montaggio. Quando si recava sul set del film, sapeva perfettamente cosa doveva fare. In passato, la necessità di risparmiare pellicola imponeva una maggiore efficienza da parte dei registi, che erano però spinti in un certo senso a prendersi più rischi nel dirigere i film. Scorsese si dice geloso della libertà artistica con la quale si sono mossi Powell e Pressburger in quel periodo. Il loro è stato un connubio quasi unico nel mondo spesso egoistico del cinema. Certo, non potevano scrivere insieme nella stessa stanza, litigavano troppo, ma la loro collaborazione è stata davvero brillante". Come racconta Thelma, Scarpette rosse nelle intenzioni di Michael Powell doveva essere il più possibile un film cosmopolita, dall’afflato universale, e non soltanto inglese. "La sua era una personalità forte, ma aperta alla collaborazione. E così è Scorsese, che nutre un profondo rispetto per gli attori e le attrici. Li cura e crea per loro un ambiente protettivo". La fedelissima montatrice di Martin Scorsese (il cineasta ha voluto inviare un video proiettato prima della proiezione in Piazza della pellicola) ha inoltre evidenziato l’enorme impatto e l’influenza che questo film ha esercitato non solo sul regista di Toro scatenato e The Departed e su altri cineasti, ma anche sulla gente comune e su tanti artisti: ballerini, sì, ma non solo. "Scarpette Rosse è uno dei film faro per Scorsese", ha proseguito Thelma Schoonmaker, "è forse in assoluto il suo film preferito, seguito da Otto e mezzo di Fellini. E ancora oggi non smette di ispirarlo. Il prossimo lavoro di Scorsese, Shutter Island, conterrà infatti diversi riferimenti a questo capolavoro di Powell e Pressburger, come ad esempio alla scena in cui vengono ripresi solo i piedi di Vicky, fasciati nella scarpette rosse, mentre scende vorticosamente le scale verso un fatale destino". La storica collaboratrice del regista italo-americano realizza un ulteriore parallelismo tra la poetica di Scorsese e quella del marito Powell: "Entrambi condividono una visione che nulla ha a che fare con il sentimentalismo o con i cliché. Non esiste un villain nei loro film perché a valere per loro è la complessità dell’animo umano, è il chiaroscuro, non la semplice contrapposizione tra il bianco e il nero. Il loro lavoro mira a interfacciarsi con rispetto al pubblico, che è sempre più avanti. Sperando naturalmente che quello stesso pubblico lo segui". Proprio nel prossimo Shutter Island, ha poi spiegato la montatrice, i flashback contenuti nella narrazione sono stati girati in Kodachrome. "Powell adorava il Technicolor". Il restauro, iniziato nel 2006, ha fatto riemerge la preziosa texture visiva del film. La base dell’operazione sono stati i negativi camera del Technicolor a tre matrici, sottoposti a  scansionamento digitale per ri-registrare i colori, rimuovere i graffi e lo sporco presenti, risolvere i problemi di contrasto e allineare le tre bande del Technicolor. Tutto è stato riversato poi su Eastmancolor.

Frank Capra: il nome sopra il titolo
Se l’anno scorso grande protagonista del festival è stato Josef von Sternberg, presente anche quest’anno con l'infernale I misteri di Shanghai, Il Cinema Ritrovato 2009 rende omaggio al grande regista italo-americano Frank Capra, di cui è stata proposta l’intera e oggi poco conosciuta produzione muta. La retrospettiva ha incluso titoli come The Strong Man (La grande sparata, 1926), The Younger Generation (La nuova generazione, 1929), la trilogia dei mezzi della modernità Submarine (Femmine del mare, 1928), Flight (Diavoli volanti, 1928) e Dirigible (Dirigibile, 1931), con la coppia virile Jack Holt-Ralph Graves, e Ladies of Leisure (Femmine di lusso, 1930), con l’attrice feticcio di Capra Barbara Stanwyck. Lo sguardo di Capra, cineasta che ha senza dubbio raccontato attraverso le sue opere la storia dell’America, è già capace di fornire un’acuta osservazione della società a stelle e strisce (basti pensare agli echi attuali del crac finanziario Usa offerti da La follia della metropoli del 1932), ma si tratta di una lettura più leggera e libera rispetto a quel populismo paternalista e a quel realismo convenzionale che mostreranno certi suoi film d'epoca rooseveltiana. Non è mancata comunque un’incursione in titoli più famosi come la sophisticated comedy La donna di platino e l’esotico mélo L'amaro tè del Generale Yen.

Le altre sezioni
Oltre a una selezione dei migliori film del 1909, il festival ha inoltre proposto, nell'ambito del Progetto Chaplin, un omaggio a Harry d'Abbadie d’Arrast, con due dei suoi film più belli e rari, A Gentleman of Paris (1927) e soprattutto Laughter (1930), tra le primissime romantic comedies sonore. Protagonisti della sezione Tutto Maciste, sono stati sette titoli restaurati dedicati al mitico eroe italiano. Grande attenzione ha ricevuto Kinojudaica, una sezione curata da Valérie Pozner e Natacha Laurent per la Cinémathèque de Toulouse in collaborazione con il Gosfilmofond,  concentrata sul cinema russo e sovietico realizzato da attori e registi ebrei, su tematiche riguardanti la cultura ebraica. Sezione particolarmente apprezzata dal pubblico festivaliero è quella dedicata ai Dossier, che si sono rivelati negli anni veri e propri contributi innovativi di ricerca su singoli autori o singole opere: il Dossier Blasetti, interamente curato dalla Cineteca di Bologna, con inediti materiali sull’attività artistica di uno tra i più importanti registi italiani, il Dossier Cinefilia con omaggi a Bernard Chardère, Henri Langlois e André S. Labarthe, il Dossier Chaplin e Napoleone, e ancora due piccole sezioni dedicate rispettivamente a La crisi economica ai tempi del muto e a Jean Epstein, il mare come definizione del cinema. Ospite del festival è stato Richard Leacock, operatore del film di Flaherty Louisiana Story, che ha introdotto il proprio capolavoro, A Portrait of Stravinsky, realizzato nel 1966. Uno degli appuntamenti più significativi è stata, infine, la retrospettiva dedicata a Vittorio Cottafavi, richiesta ora anche dal Lincoln Center di New York e dalla National Gallery di Washington. Il direttore della Cineteca di Bologna Gian Luca Farinelli ha inoltre annunciato che sono in corso trattative per un'eventuale replica, il prossimo anno, di un'ampia selezione del festival in una delle capitali europee. Un interesse che conferma il successo e l’importanza della rassegna bolognese, la quale, contribuendo fattivamente alla conservazione e alla diffusione del cinema del passato, assicura anche una solida base di slancio, rilettura e ispirazione per il cinema del presente e del futuro. La prossima edizione del Cinema Ritrovato è attesa per il 2010 e sarà in programma dal 26 giugno al 3 luglio.

 


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