Il Grinta: John Wayne, Jeff Bridges e i tempi che cambiano PDF 
Umberto Ledda   

Il bello del western è che ci si può fare di tutto. All’inizio c’erano i John Wayne  e i John Ford e il western era semplicemente la favola fondativa di quel popolo giovincello e ormonale che sono gli statunitensi, con il suo orizzonte da raggiungere e consolidare, con i suoi reietti che in terra straniera cercano con foga la seconda possibilità, con la mitologia della stabilità costruita sul caos e sul disordine, eccetera, eccetera, eccetera. Gente dura e ignorante e forte, capace di soffrire per dare un futuro migliore alle generazioni future: una sorta di culto dei padri drammatizzato. Se il western fosse rimasto questo avrebbero smesso di farne da decenni.

Per fortuna poi è arrivato Leone (a cui si deve la sopravvivenza del genere), e con quella che è e rimane una gran cialtronata ha cambiato tutto: totalmente estraneo a quei motivi profondi che spingevano gli americani a credere nel western, affascinato solamente dagli stilemi estetici ed epico-avventurosi, e quindi in teoria senza uno straccio di credibilità per fare film coi cowboy ambientati in Texas, lo ha fatto lo stesso, e gli è venuto benissimo. Gli è venuto benissimo non tanto nel senso di una buona scopiazzatura, o di un prodotto funzionale come semplice cinema d’avventura sostanzialmente traditore. La cialtronata funzionava perché rivelava il western come meravigliosa impalcatura narrativa, come deposito di canoni narrativi duttilissimi e potenti: non solo avventurosi, ma anche simbolici. Univa la potenza dei temi del confine, della natura, del rapporto fra uomo e i suoi obiettivi, ma offriva la possibilità di personaggi barbarici (ma abbastanza moderni da non renderli noiosi), privi di tutte quelle seghe mentali da civilizzazione che avrebbero reso troppo cervellotica la rappresentazione del Novecento. Insomma, il genere perfetto: permetteva tutto. Leone aveva dimostrato che se il western andava bene per raccontare l’epica di una civiltà giovane e vittoriosa, andava benissimo anche per l’epopea picaresca della sopravvivenza quotidiana in una società a pezzi, cioè più o meno il contrario. Da lì in poi si è capito che il western era un territorio narrativo franco: l’unico tipo di storie in costume capace di rendere tutte le possibili articolazioni di una sensibilità completamente diversa come quella post-novecentesca. Il genere, invece di morire con il mondo che lo aveva generato e che ne aveva fatto un mito delle origini (tipo lupa capitolina, proprio), è sopravvissuto assorbendo altri simboli e altri significati.

Arrivando al punto, una delle cose più evidenti quando si guarda Il Grinta dei Coen, e poi si ripensa a quello di Hathaway e Wayne (che è del 1969, quindi contemporaneo a Il mucchio selvaggio di Peckinpah, che fece a pezzi la prima incarnazione del western pur senza accorgersene) è proprio lo stupore del considerare quanto due film possano essere così diversi pur essendo, sostanzialmente, abbastanza simili. Perché d’accordo che il film dei Coen è tratto dal romanzo da cui era tratto quello di Hathaway e sono quindi indipendenti, ma è anche vero che, narrativamente, non sono nemmeno poi così diversi. La storia è quella: determinata ragazzina del west con padre morto ammazzato assolda un vecchio sceriffo grasso e alcolizzato (che però ha due palle così e soprattutto non si fa patemi a sparare per catturare l’omicida). Il vecchio accetta per soldi, si aggiunge alla caccia un ranger fighetto che cercava l’assassino già da prima, i tre si odiano ma fra una carneficina e l’altra finisce che si stimano, o quasi. Alla fine il cattivo muore. La fabula, tolta a parte qualche rimescolamento agli equilibri del terzetto e l’uso di una cornice narrativa con la ragazzina Mattie diventata adulta, rimane, per forza di cose, quella. Il ritmo è simile, molti dialoghi pure, perfino certe scenografie sono sostanzialmente riprese dal film originale. Uno direbbe che a parità di trama, di percorso, quello che viene fuori dovrebbe essere più o meno lo stesso, realizzato meglio o peggio, più o meno noioso, magari con una diversa atmosfera o diverse sfumature, ma comunque due cose che conducono nella stessa direzione, che dicono quasi la stessa cosa. E invece sono due film che parlano lingue diverse, opposti nello spirito, nella sensibilità, nell’atmosfera, nelle conclusioni più o meno inconsce che tirano fuori. Un cambiamento di pianeta, proprio.

Qualitativamente il tempo non è passato invano e i Coen hanno potuto mettere delle belle toppe al film del ’69, che visto oggi suscita sicuramente molto rispetto ma anche parecchia noia. I due per prima cosa rendono la ragazzina meno simile a un maschietto, visto che nell’originale non solo aveva i capelli corti, cosa anche piuttosto credibile nel vecchio west, ma pure la voce indefinita e l’aspetto neutro che la rendeva di fatto indistinguibile da un adolescente maschio (chissà perché, forse per pruderie). Cosa piccola, apparentemente trascurabile, ma visto che il fascino di una storia come questo sta proprio nel vedere una delicata ma cazzutissima figura femminile, e pure bambina, in un mondo di bestioni che non devono chiedere mai, dotarla di aspetto e dolcezza femminile era in effetti appena il minimo (poi comunque si aggiunge il fatto che l’attricina scelta per il ruolo è vergognosamente brava e anche questo contribuisce). I Coen rendono anche il vecchio alcolizzato Rooster Cogburn meno affabile, più lercio. Non che il film originale presentasse un personaggio proprio raccomandabile, ma il massimo di cattiveria che John Wayne poteva raggiungere era quella del burbero ma in fondo buono, e così faceva. Jeff Bridges invece fa venire il dubbio che il suo Rooster sotto sotto sia davvero malvagio, e questo giova all’equilibrio della storia e la rende un attimo più incerta anche se è chiaro come andrà a finire. Ma soprattutto, rispetto al film originale, che era un film macho e se ne fregava delle questioni estetiche, il nuovo Il Grinta ha dalla sua il tipico asso nella manica dei Coen: il fattore coolness.

Tutto ciò che fanno i Coen, da vent’anni a questa parte, è cool. Perfino l'Javier Bardem di Non è un paese per vecchi, agghindato come un cretino e quasi senza espressione: eppure si guarda il film ed è evidente che diventerà un personaggio di culto. Quando i Coen inventano un personaggio è quasi ovvio che poi gli spettatori sentiranno il bisogno di appendere un suo poster sopra il caminetto. È un talento peculiare (il solo a fare di meglio è Tarantino, ma per farlo si nutre delle carogne di altri personaggi morti, quindi non vale): l’orecchio assoluto per ciò che può entrare nella memoria pop collettiva. Fatto sta che quando la ragazzina si veste da cowboy per andare a caccia di assassini (la scena possiede una strana epica silenziosa), quando poi ha finito è né più né meno il personaggio che nel suo intimo lo spettatore aveva sempre sognato pensando a una giovane cowboy donna: la faccia giusta, i vestiti giusti, la giusta espressione, i giusti difetti. Idem per il vecchio Cogburn: ancora di più di quanto non facesse Wayne, Bridges è esattamente quello che lo spettatore desiderava dall’aspetto esteriore di un vecchio cowboy stronzo. I Coen creano icone, di qualsiasi tipo, basta che abbozzino un personaggio. Poi certo, Wayne era Wayne: ma questo non era merito del personaggio in sè.

Una volta risolto il giochino su quale dei due film è più bello, c’è dell’altro. I Coen apportano nel paniere de Il Grinta la loro cifra peculiare, com’è giusto che sia. Che è cifra molto attuale e molto legata allo zeitgeist, pure se si mettono a parlare di pistoleri di fine Ottocento. Il primo Il Grinta era del 1969, esprimeva quel suo tempo, e infatti si muove su binari tematici saldi di bene/male, di giusto/sbagliato, di buoni/cattivi, eccetera. Era ancora un’epoca in cui si pensava che il passare del tempo apportasse necessariamente un cambiamento positivo, all’insegna del mito del progresso. Le psicologie quindi sono stabili e salde, la violenza serve solo a evitare che ci sia maggior violenza (poi il Cogburn di Wayne un po’ ci gode, ma ognuno ha le sue debolezze), la parola data viene mantenuta dai buoni e tradita dai cattivi, se i buoni fanno una supposizione di solito ci prendono, e comunque vada alla fine si salva sempre capra e cavoli e tutti sono migliori di prima, tranne i cattivi che sono morti. Roba vecchia, dunque. I Coen sono attuali e fra gli attuali sono fra quelli che meglio percepiscono che cosa succede intorno alla società di cui fanno parte. E quindi, come ci si aspetta da loro, fanno la semplice operazione di togliere l’apparenza sensata alla storia. Eliminando la patina di senso, tutto diventa di colpo più credibile, anche se meno rassicurante. I personaggi diventano subito tipicamente coeniani: gente che magari sa che cosa vuole ma comunque non ne capisce il perché, e quindi finisce che si muove un po’ a casaccio. Tutta la perfetta coerenza e organicità del vecchio Il Grinta è perduta. Il vecchio Cogburn commetteva errori perché era un po’ in là con gli anni, ma poi recuperava meravigliosamente. Il nuovo li commette sistematicamente (si vede di rado un protagonista che spara per sbaglio al coprotagonista e poi cerca confusamente di attribuire la colpa a qualcos’altro), la realtà non è mai dove pensa che sia, alla fine mette a posto il tutto ma in maniera un po’ raffazzonata, e se alla fine si salva sembra quasi sia un caso. Anche la violenza si muove un po’ a casaccio, senza un vero scopo, senza una consapevolezza, in un panorama etico inesistente: l’etica si riduce a una serie di strategie di sopravvivenza che non è detto che funzionino.

La caduta del senso porta alla caduta dell’aura mitica: se John Wayne, pur con tutte le beghe alcolico-senili del suo personaggio, dava a Rooster il sano stoico eroismo dei bei vecchi tempi, Bridges somiglia solo a quello che il suo personaggio è: un alcolizzato vecchio, grasso e guercio che si guadagna da vivere ammazzando. Non una specie di vecchio eroe malinconico, solo uno che spara con più facilità degli altri e fino ad ora ha sempre portato a casa la pelle. Non c’è l’idealismo di un criminale da punire facendo giustizia, non c’è la speranza del ripulire la piazza dagli assassini. La giustizia di Rooster è solo una questione di soldi, quella del texas ranger LaBeuf niente più che un punto d’onore personale. Quella della ragazzina è del tutto indistinguibile dalla vendetta, ma se non altro si porta dietro un che di purezza, che a sua volta si infrange contro un mondo di cialtroni inaffidabili, dove la violenza può essere devastante ma difficilmente ha un senso, una direzione, un motivo preciso. Un mondo diverso da quello del vecchio Il Grinta, insomma, anche se la storia è quella. Il vecchio Il Grinta era malinconico e crepuscolare, certo, ma trasudava fiducia nell’esistente e dava per scontato che le cose dovessero avere un senso preciso.  Diceva: i vecchi se ne vanno prima o poi, ma l’esempio imperterrito  e orgoglioso che danno anche nella vecchiaia e nel decadimento rimane lì a tracciare la via per il futuro, che si intravede e non sarà facile, ma ci si combatterà contro sicuri di vincere. Il nuovo Il Grinta esprime una consapevolezza che la malinconia al confronto è una forma di ottimismo. Il nuovo Il Grinta, nella scelta di rimanere fedele al romanzo e di presentare l’intera storia come un ricordo lontano, mostra com’è poi andata a finire, e fa vedere senza troppo pietà che non è andata a finire bene. Il vecchio Rooster finito a fare il giullare al Wild West Show con nani e ballerine, la piccola Mattie zitella sola e senza un braccio, orgogliosa di sé ma un po’ inquietante. Il nuovo Il Grinta dice, del mondo, una cosa diversa: i buoni non necessariamente vengono premiati. Gli eroi sono dei cialtroni. Ad azione corrispondono reazioni, ma mai ricompense, nel bene e nel male. Nulla ha un gran senso. Le cose accadono e basta. Insomma, la quintessenza del pensiero contemporaneo e di quello dei Coen. Curioso guardare i due film in parallelo e guardare come cambiano le cose.

Un’ultima cosa. Perché, come già era il vecchio Il Grinta, anche quello nuovo è una storia d’iniziazione, il bildungsroman di una ragazzina determinatissima che affronta il mondo degli adulti e se ne dimostra degna. Solo che Il Grinta di Wayne era un’iniziazione ai dolori, alla perseveranza, alla saggezza e alla giustizia: alle virtù terrene di una terra difficile. Quello dei Coen, infinitamente più cupo per colori (dal marrone al grigio, poco altro) e atmosfere, è l’iniziazione di una ragazzina a un mondo di morte, caos e violenza. Nonostante la consueta ironia coeniana, c’è nel film un elemento austero, sacrale, disturbante. Saranno le ambientazioni nevose dell’Oklahoma, i boschi grigi e spettrali, l’abbondanza di ambientazioni notturne. Sarà la citazione biblica in incipit (dai Proverbi, “il malvagio fugge anche se nessuno lo insegue”). I Coen hanno dichiarato di aver visto nel romanzo di Portis qualcosa di Alice nel paese delle meraviglie. Vero, visto che la struttura è in fondo la stessa, ma le meraviglie sono un carnaio, una nave di matti, una discesa verso la consapevolezza della morte, della sua insensatezza e della sua onnipresenza. Il Grinta è un western che non di rado sembra un horror. C’è l’impiccato altissimo che domina la foresta, con la ragazzina che deve arrampicarsi sull’albero (Rooster è troppo grasso e troppo vecchio) e avvicinarsi per tirarlo giù. C’è il dottore dentista che cava i denti a i morti e va in giro con una pelliccia d’orso sulla testa: una figura incongrua e inverosimile che contribuisce al tono apocalittico. C’è il pazzo che nella banda criminale fa i versi degli animali, che sembra di essere finiti di un film di Terry Gilliam. E poi ci sono le sparatorie, la fossa coi serpenti che si annidano dentro un vecchio cadavere e mordono la mano di Mattie, la lunghissima corsa notturna di Rooster per salvare la ragazzina, che diventa una specie di scena onirica e allucinatoria, febbricitante. La scoperta della morte violenta e delle sue profondità irrazionali: questo diventa l’ingresso nel mondo degli adulti secondo i Coen.

In questo senso Il Grinta si accosta a una tendenza del western degli ultimi anni, che finisce immancabilmente per riflettere la presunta morte del genere in una riflessione sulla morte tout court. Film come Le tre sepolture di Melquiades Estrada, o prima di lui Dead Man, a cui Il Grinta somiglia, alla fin fine, parecchio. Sarà che il western era il genere biografico dell’America classica. Prima ne ha cantato la forza, poi la malinconia del suo invecchiamento, nella fase crepuscolare degli anni Sessanta di cui anche il vecchio Il Grinta fa parte. Adesso che quell’America è morta, ne canta la fine e la continuazione del viaggio in territori sconosciuti, come in un addentrarsi nei boschi non mappati di un territorio indiano che sembra tantissimo il fiume di Cuore di tenebra.

 


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