Meglio sparire per tornare ad essere: Viva la libertà! PDF 
Francesca Dimasi   

Sarebbe inutile e censorio esimersi dal raccogliere le scintille di entusiasmo sorto intorno a quest'opera che orgogliosamente, sin dal titolo, rivendica il carattere di un grido posato, di una bandiera che sventola sfacciata, di un giocoso e timido pensiero di cambiamento. Basterebbe a quest'Italia “fiacca e marcia” uno solo dei gemelli Oliveri, anche solo quello che preferisce sparire, senza necessariamente sperare nell'avvento di colui che invece torna ad essere: il filosofo, il matto, il nuovo, il pensiero! Sì, perché a quest'Italia a cui “piace la merda” basterebbe anche solo colui che sa che “non bisogna dargliela”, colui che si ritira dal cinema dei bluff, o colui che tace legittimando l'oscurità del nostro tempo. Basterebbe la “compostezza sguaiata” di questo grido, “Viva la libertà”, per riaprire le porte al pensiero lucido, quello che si nutre di concetti, di suggestioni shakespeariane, di guizzi teatrali, di sorrisi eloquenti, di chiarificazioni elementari, di trasparenze, di sane vittorie, di platee infuocate di passione.

In Viva la libertà è lo scrittore Andò a muovere le fila dell'immagine, come ne Il Gattopardo, era la parola vibrante di Tomasi di Lampedusa a generare quel testo visivo che Visconti tessé con tanto riguardo. Esattamente come ne Il Gattopardo qui tutto cambia perché tutto rimanga com'è, o meglio il paradosso è forse un altro: l'illusione che tutto sia rimasto immutato (che il leader del partito d'opposizione sia la stessa persona di sempre) mentre, al contrario, tutto è mutato dal suo interno. La beffa è dunque un'altra: quella di promuovere la rottura degli elementi vigenti e il capovolgimento dello status quo. Di conseguenza abbiamo che in Viva la libertà quella sacra tragedia della decadenza messa in scena dall'opera viscontiana lascia il posto a un sentimento di elegiaca libidine, a un vispo gioco delle parti in cui lo scambio, la combinazione, il bluff generano l'avvento di un nuovo scenario civile. Impossibile non pensare a questo film come a una “cosa nostra”, del tutto italiana, a un linguaggio cifrato che solo l'Italia “fiacca e marcia” conosce. Ebbene come si colloca questo linguaggio tenue, questa scrittura visiva così posata e garbata, questo j'accuse senza accuse, senza furori, nell'Italia degli esodati, l'Italia stremata, l'Italia zimbello d'Europa, l'Italia del favoretto, l'Italia del Bagaglino? Andare a vedere Viva la libertà, in questa Italia post-elezioni è come assistere alla caduta di un mite asteroide, una parentesi dalla bolgia senza fine del carosello politico italiano. Il film in questione si colloca come esperienza discorsiva che non grida alle folle, non vi accende la rabbia, ma anzi assorbe il malumore, la fiacchezza in una soft-comedy, priva di crescendo patetici, tolta la scena del comizio appassionato in cui la folla in sala si riconosce nella folla che inonda la storica piazza romana di San Giovanni.

Il film di Andò è un'opera esemplare, nel senso che si fa exemplum di come le cose “potrebbero” e non “dovrebbero” essere, ma proprio nel delineare i tratti alternativi di una realtà circoscritta e storicamente identificabile come questa Italia rinuncia alle prediche, ai cedimenti retorici che pur nelle sale italiane avrebbero facile presa, affidandosi piuttosto alla sorpresa che produce trovarsi dinanzi a un'opera fatta di equilibri formali, strutturata quasi come una favola, mai sarcastica, al contrario divertita e generosa. Pensando a un film come questo, che parla all'Italia dell'Italia, ci si aspetta di incontrare i toni dell'apostrofe, o un discorso complice che però sottende l'attribuzione di responsabilità allo spettatore/cittadino; un discorso diretto alla sala che preme su quelle corde della coscienza civile già abbondantemente solleticate da sogni rivoluzionari e deliri anarchici. E invece no. Se è vero che mai come in questo caso il soggetto in sala si identifica come soggetto civile, ponendosi come interlocutore complice di un dialogo intimo e “politico”, è vero anche che il film di Andò coinvolge senza apostrofare, dice senza sferrare attacchi, chiama in causa senza far sobbalzare lo spettatore dalla poltrona, non si aspetta risposte dalla platea, se ne produce da sé (caso rarissimo in un'estetica, come quella cinematografica, in cui le risposte non sono il primo obiettivo dell'indagine). E così facendo invita lo spettatore a fare lo stesso, a fabbricare da sé delle risposte, a farsi partecipe indagando le ragioni di questo cataclisma culturale, e produrre risposte attive, risposte che abbiano come fine il cambiamento. Senza traumi, senza scalinate di Odessa, senza sollevamenti ottobrini, semplicemente guardandosi a uno specchio diverso, o meglio a uno specchio sempre uguale, il cinema, che riflette un'immagine diversa.

Dicevamo che Viva la libertà produce l'idea di uno scenario alternativo, un come “potrebbe” essere e non come “dovrebbe” essere il nostro Bel Paese. Ciò che conta, infatti, nell'opera di Andò è l'Essere, il fatto stesso cioè di rompere quella bolla di torpore che avviluppa e tiene il pensiero sotto il giogo della menzogna e dell'illusione. Il discorso estetico e il discorso politico si fanno tutt'uno: il piano estetico si disloca su una duplice matrice, quella visiva e propriamente cinematografica, e quella letteraria, che si inscrive in un secondo testo ricco di riferimenti poetici. La parola, il verbo, la tradizione prosaica del nostro teatro trovano qui un posto d'onore, laddove alle parole pronunciate dal “pazzo filosofo” e al silenzio del “timido politico” viene assegnato lo spazio dello slancio retorico, il succo stesso della comunicazione, mentre sull'altro versante, quello propriamente visivo, il discorso procede senza turbamenti o capricci visionari. La chiarezza, la familiarità sono la cifra dell'immagine, l'estrema vicinanza dello spettatore con quanto rappresentato sono il motivo stesso del procedimento formale, come a voler dire: “Ecco, non c'è nulla, che impedisca che le cose vadano così”. E ancora: “Cosa impedisce che questa piazza che voi bene conoscete, ospiti un giorno contenuti di questo tipo? Cosa impedisce che questa piazza si accenda delle parole di Brecht, invece che di affettati sproloqui in politichese?”. In poche parole, in Viva la libertà non è mail l'immagine a osare, quanto la parola, poiché è la parola a essere protagonista del fare politico, a sollecitare la partecipazione, a infiammare le coscienze, a farsi portatrice di cambiamento...

Le uniche “infrazioni” di questa visione sono di tipo umoristico, dunque “coloristico”. Sono scene o semplicemente inquadrature (vedi quella delle scarpe del leader in chiusura) che alludono, senza particolari allegorie, all'avvenuta metamorfosi o che preannunciano la fine di un sistema: prendiamo come esempio la scena d'apertura, in cui il segretario Oliveri (il titolare effettivo della carica prima della sostituzione con il gemello balzano) fa il suo ingresso nel palazzo delle assemblee accompagnato dal fido assistente e da una seconda figura (femminile). In questo caso un austero campo medio dei tre, che con sguardo dritto si dirigono a passo spedito e sincronizzato verso la sala delle assemblee, viene interrotto dalla richiesta tanto spontanea quanto bizzarra del leader di poter usare una toilette. La richiesta che arriva come un fulmine a ciel sereno mandando in crisi i due assistenti, non solo per il ritardo cui incorrono, ma anche per aver abbondantemente superato i servizi riservati ai vip, è un inserto umoristico che rompe con la seriosità dell'ouverture e che allude al contempo a una prossima rottura con la meccanica del protocollo. Opera dalla drammaturgia distesa, che predilige il tocco mimico alla rappresentazione vera e propria, Viva la libertà riscopre l'epica del discorso brechtiano rivolgendosi a uno spettatore interno alla scena, partecipe e divertito. La scelta del doppio, del gioco di specchi, di due Toni Servillo non più divo, ma pronto a sciogliere la maschera andreottiana nello sdoppiamento, è una ridondanza che Andò gestisce come apertura del testo. Se il motivo dello scenario filmico è infatti “l'alternativa” (politica, estetica, culturale), e dunque l'apertura a possibilità altre, contemplare la dualità (da una parte il pudore e il sano senso di inettitudine di Enrico, dall'altra la beata follia poetica di Giovanni, a sua volta bipolare) rappresenta un'ulteriore tensione del testo verso la moltiplicazione, la proliferazione, l'alternativa appunto.

Bastano dunque pochi versi, una manciata di sillabe esattamente come in un Haiku, qualche pennellata qua e là, un volto (quello di Servillo) in grado di reggere su di sé l'intero carico drammaturgico, ed ecco che l'opera è compiuta. In ogni Haiku che si rispetti c'è un Kireji, una sorta di capovolgimento straniante del verso precedente, in sostanza una rottura interna del testo poetico che introduce nuove suggestioni... in Viva la libertà il Kireji è Federico Fellini. Nell'epilogo di questa dolce farsa che mantiene il giusto equilibrio tra reale e immaginario, tra ciò che è e ciò che, giocando un po' di fantasia, potrebbe essere, tra la stanchezza sciapa del reale e il profumo invitante della fiction, arriva il capovolgimento, il secco irrompere di ciò che anche in una favola non può essere eluso: la morale. Sorridere fa bene, anche in tempi di crisi, e anche con un tocco di amarezza. Ma il finale è il luogo in cui gli incubi si condensano, e il brusco risveglio è alle porte. Il dramma fino a questo momento arginato si abbatte impetuoso sul testo producendo un buco (una nuova apertura) sul suo tessuto. La rabbia, l'indignazione di Fellini di fronte alla mutilazione della sua opera si rovescia implacabile sullo spettatore, sul cittadino che vede deturpata la sua di opera (il suo Paese, la sua cultura). Il risveglio non può che giungere a seguito di un monito ... “perché l'indecenza non diventi un'abitudine!”.

 


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