Banlieue 13 è un film del 2004 di Pierre Morel (Io vi troverò, From Paris To Love), ma dietro c'è naturalmente la longa manus del prolifico ed eclettico Luc Besson, che fruga ormai da anni nei resti dei vari generi alla ricerca della pepita d'oro. Come per Taxxi (1998) e Wasabi (2001), anche per Banlieue 13 vale l'effetto minestrone con triplo dado: campioni del parkour e free running come protagonisti con facce che ricordano Vin Diesel e Jackie Chan, una spruzzatina di Yamakasi - I nuovi samurai (2001), qualche rimando ai carpenteriani conti alla rovescia di 1997 Fuga da New York, accelerazioni e decellerazioni modello Guy Ritchie, un pugno di franco-rap by Da Octopuss, una sceneggiatura che sconfina nell'assurdo e nell'inverosimile, un ibrido tra Steven Segal e Bruce Lee, per 84 minuti di azione di chiara matrice hollywooddiana.
In altre parole una chimera "orientoccidentale" che approfitta di un tema socialmente rivelante, l'emarginazione e il degrado nei quartieri periferici parigini, per imbastire una storia improbabile con un finale altrettanto improbabile. Leito (il campione di parkour David Belle) è il monello dal cuore d'oro che si vede sequestrata la sorella Lola (la ex pornostar Dany Verissimo) da una banda di malviventi capitanata dal cocainomane Taha (il co-sceneggiatore Larbi Naceri) e dallo scagnozzo K2 (il corpulento Tony D'Amario). Damien Tomaso (lo stuntman Cyril Raffaelli) è il poliziotto incorruttibile (stile Bruce Willis di Die Hard) che deve salvare Parigi da una bomba al neutrone in possesso dei cattivi asserragliati nella Banlieue 13. Riusciranno i nostri eroi Leito e Damien, unendo le loro forze, a disattivare in tempo l'ordigno e a salvare Lola dalla schiavitù tossica?
La struttura del film segue il modello della sceneggiatura classica: la presentazione del primo eroe, la comparsa del secondo protagonista, l'incontro/scontro, la donna in pericolo, i cattivoni da fumetto, l'apparente ingarbugliarsi degli avvenimenti, la risoluzione finale. L'inizio è adrenalinico e tachicardico e mette in mostra le abilità fisiche di Leito che riesce a scavalcare barriere umane e architettoniche con una facilità irrisoria (e senza controfigura). Il montaggio è perfetto e il succedersi delle inquadrature lascia lo spettatore senza fiato. Adattarsi all'ambiente circostante e aggirare gli ostacoli: sembrano norme di vita, ancora più vere nelle banlieue parigine, in realtà è l'essenza stessa della disciplina parkour. Trasformare gli ostacoli in trampolini di lancio, usare il corpo come leva per ribaltare le leggi della gravità. Ma finito l'effetto sorpresa iniziale, pur nella dignitosa confezione che caretterizza le produzioni bessoniane, il film si incanala nel solito baraccone di botti, spari e inseguimenti rivestiti di una fastidiosa pellicola cellophanata di stile pubblicitario. La polizia è naturalmente corrotta e prima mette in carcere l'innocente Leito (che comunque compie un omicidio a sangue freddo di inaudita ferocia), e poi, addirittura, si rende braccio armato di una decisione politica inverosimile, radere al suolo otto chilometri di città per pulizia etnica. I dialoghi fanno rabbrividire e ci sono certe analogie con lo sterminio degli ebrei che lasciano spiacevolmente basiti. Al contrario, la fotografia di Manuel Teran è molto curata e ben aderente alla narrazione e dimostra la capacità del regista di manipolare gli ambienti con ben dosate sovraesposizioni di grigi e marroni chiari (Morel è stato anche il direttore della fotografia di The Transporter e Danny The Dog).
A Morel e Besson non interessa entrare nelle vite interiori dei personaggi o specificare le ragioni che li spingono ad agire. Né tracciare un'approfondita analisi sociale sulle dinamiche delle periferie parigine, cercando di sottolineare come in un ambiente malato è molto facile lasciarsi infettare dal germe della violenza e della sopraffazione (mi viene in mente il sublime esempio de L'odio di Kassovitz). Il disagio esistenziale, l'emarginazione, la ribellione delle minoranze non silenziose dei quartieri ghetto vengono sacrificati sull'altare della spettacolarità ad ogni costo. Siamo dalle parti di un videogioco di lusso dove ad ogni scena aumenta il sovraccarico sensoriale (tra grandangoli, arditi movimenti della mdp, riprese da punti di vista impossibili, zoommate), fino ad arrivare al corto circuito. In certi punti sembra di essere proiettati in un fumetto Marvel: l'uccisione di Taha e il veloce svezzamento di Lola dalla droga lasciano alquanto perplessi, così come il colpo di scena sul codice da immettere nel finale per disattivare la bomba.
Il film funziona maggiormente quando lascia parlare il corpo dei protagonisti, la loro abilità nel gestire le scene d'azione, nel districarsi nel labirinto di stanze e cul de sac, nel trovare vie di fuga impossibili. Al contrario, quando Leito e Damien si mettono a discutere o a dialogare viene voglia di prendere in mano un trattato di botanica. La stessa ironia è di grana grossa e relegata a battutacce di impronta machista sottolineate da pugni o sventagliate di mitra. Insomma, se non fosse per le acrobazie e i salti mortali di David Belle e Cyril Raffaelli, il film potrebbe essere facilmente archiviato come puro action movie con totale disattivazione neuronale e abolizione di ogni pensiero critico. Per Luc Besson sembrano lontanissimi i tempi di Subway e di Nikita, di Leon e Il quinto elemento: nella bilancia tra intrattenimento intelligente e prodotto da ipermercato, negli ultimi anni l'ago sembra sempre di più pendere verso il secondo elemento, e l'apparire ha svuotato di senso ogni immagine, privandola dell'anima del suo significato.
Titolo originale: Banlieue 13; Regia: Pierre Morel; Sceneggiatura: Luc Besson, Bibi Naceri; Fotografia: Manuel Teran; Montaggio: Stéphanie Gaurier, Frédéric Thoraval; Scenografia: Hugues Tissandier; Costumi: Martine Rapin, Alexandre Rossi; Produzione: Europa Corp., TF1 Films Production, Canal+; Distribuzione: 01 Distribution; Durata: 84 min.; Origine: Francia, 2004
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