Parnassus, ovvero le storie che sorreggono il mondo PDF 
Umberto Ledda   

Nessun regista è perfetto, anche quando lo è. Ogni squilibrio positivo da una parte comporta (è un luogo comune) un corrispondente squilibrio negativo dall’altra: non si può tirare la corda da entrambi i capi. Kubrick, ad esempio, era un genio, ma non aveva alcun senso dell’ironia. I suoi personaggi talvolta, la sua regia mai. Stesso discorso per un Godard, o per un Wenders. Cronenberg manca di umanità e di poesia. Lynch di sfumature. Capita. Li si guarda per altri motivi. Basta non ostinarsi a cercare quello che lo stesso regista non aveva intenzione di inserire. Chiunque andasse a vedere un film di Tarantino e all’uscita si lamentasse della scarsa profondità delle psicologie andrebbe bandito a vita dalle sale. Terry Gilliam, da parte sua, manca totalmente del senso della struttura. Agisce per accumulazione, ama troppo le sue idee per rinunciarci, e così finisce sempre che le mette tutte, anche quando l’accostamento è stridente o inverosimile o di pessimo gusto. Mette in scena strutture narrative piene di scene inutili, di notazioni puramente pretestuose, di anse che allontanano quel tanto che basta lo spettatore da una percezione lineare del suo percorso. Cambia idea sui personaggi in corso d’opera (in Parnassus obbligato a farlo dall’unica cosa più importante del cinema, la morte, quella vera), obbligandoli sulla base di un’invenzione fantastica a stravolgersi e ad assumere psicologie contraddittorie. Attratto dall’invenzione e dalla bellezza della fantasia, evita di farsi domande sull’economia narrativa. C’è, in ogni suo film, materiale per molti film, spesso piuttosto eterogeneo, talvolta incompatibile col resto: il risultato non è un tessuto liscio e scorrevole al pensiero, ma una stoffa pesante e piena di toppe di colori impresentabili, come i costumi che ama.

Incoerente e confuso, pieno di orpelli e cianfrusaglie, Gilliam fa un cinema che non sembra passato attraverso il setaccio della razionalità: una soffitta disordinata, un edificio inverosimile, paradossale, che cambia spesso forma: Gilliam è un architetto che a metà della costruzione di un grattacielo decide che il primo piano è inutile, e allora lo toglie e il grattacielo deve rimanere sospeso a qualche metro da terra. Ogni suo film non può stare in piedi, contrario alle leggi fisiche della narratologia. Come nel paradosso del calabrone, secondo cui “considerando l’apertura alare e la frequenza del battito delle ali, rapportate al peso, è scientificamente provato che il calabrone non può volare. Vola perché non lo sa”. Perché alla fin fine Gilliam vola, a modo suo, paradossalmente, ma vola. E i suoi edifici mancano del primo piano e stanno sospesi per aria e non cadono per pura incoscienza. Ottenere una visione critica di Terry Gilliam, e dei suoi film, è un progetto superficiale e patisce di un grossolano errore di valutazione iniziale. Gilliam non ha una struttura poetica: ha piuttosto una marcata personalità e sogni molto caratterizzati, che però non si fanno mai sistema. La realtà, probabilmente, è che su un piano profondo non c’è un elemento aggregante che crea un sistema di senso che comprenda ogni espressione presente nei suoi film. È un regista molto colto, ma non è un intellettuale. Ha sicuramente molti temi che gli sono cari e su cui tiene dire la sua: la necessità delle storie per l’umanità, l’orrore del gelido pragmatismo contemporaneo, una certa carica di satira sociale che lo avvicinò, a suo tempo, ai Monty Python. Ma sono elementi orizzontali, senza una volontà forte che li conduca in una direzione univoca: rimangono liberi di scorrazzare da una parte all’altra. Con ogni probabilità a Gilliam importa ben poco di avere una poetica. Ragion per cui se si vuole afferrare i suoi film – e farlo può essere utile a capire molto cose sulle nostre società, essendo Gilliam uno di quei registi la cui presenza caratterizza un tassello dello spirito del tempo – conviene non soffermarsi troppo sul suo scopo, su ciò che voleva dire, ma piuttosto su ciò che, semplicemente, è. Terry Gilliam non ha uno scopo preciso, e se anche l’avesse non sarebbe uno scopo razionale, perché a lui la razionalità fa evidentemente paura. Si esprime, fa ciò che gli piace, segue l’istinto. Da questo punto di vista, è un esemplare abbastanza raro nel panorama cinematografico contemporaneo: è un regista nudo. Il suo cinema è complesso ma deriva esclusivamente da un sincero desiderio di espressione, quasi ingenuo. I risultati sono coraggiosi, ma Gilliam non è coraggioso, quanto incosciente: non prende rischi in virtù di un percorso superiore, ma ama il rischio in quanto tale, caratterialmente. Gilliam è forse uno dei pochi registi liberi degli ultimi vent’anni. Perché un conto è essere liberi dalle pastoie dell’opinione comune o dell’ideologia, un conto è essere liberi anche da sé stessi e dalle pastoie del proprio giudizio. Gilliam è un bacino di elementi che non si prendono la briga di significare qualcosa di preciso, si entra nei suoi film come andando a pescare, nel sistema fluido, ma incontaminato, dei pensieri e delle fantasie. Molto è da buttare, ma quando qualcosa ha valore, il valore è immenso.

Parnassus (il titolo italiano mette l’accento sul diavolo, quello originale carica un’altra parola, Imaginarium), proprio in virtù di questo, è precisamente un film gilliamiano. Gilliam non evolve una poetica e non compie scarti: ha ogni volta idee diverse, che cambiano a seconda delle situazioni, ed è diverso. Il suo protagonista è il protagonista per eccellenza dei suoi film: straccione visionario, poveraccio folle, venditore di mondi alternativi che fanno sempre venire il dubbio che sia il mondo reale ad essere alternativo a loro. Un outsider dell’ontologia. C’è la mitologia della buona povertà, perché Gilliam è artista di ferocia genuina ma si apre spesso a squarci di idealismo buonista abbastanza improbabili. E così, nella compagnia teatrale itinerante del vecchissimo Parnassus, c’è la figlia sedicenne e pura, un ex orfanello teneramente innamorato di lei e piuttosto imbranato e un nano da circo che fa anche da consigliere spirituale al capocompagnia. C’è la consueta messa in scena del polveroso, dello sporco, del cadente, di vestiti laceri e mezziguanti di lana, di città abbandonate abitate dai rifiuti della società ufficiale, pulita, azzimata, numerica e agghiacciante. C’è l’epica del teatro di strada, del circo e del carrozzone, che si porta dietro scenografie stracariche, come le inquadrature, piene di cose che non servono più e di ciarpame di cattivo gusto, che ricorda molto i collage surrealisti che accostavano l’inaccostabile solo per il gusto di farlo, grande arte e paccottiglia, vittorianesimo e futuro, romanticismo etereo e sgradevolezza molto carnale, Bosch con gli ubriachi fuori dai pub, Escher con mafiosi russi che rientrano nel grembo della mamma dopo aver assistito ad un musical di poliziottesse discinte inneggianti alla violenza, Roberto Calvi e Walt Disney. E c’è, soprattutto, il consueto gioco dello sdoppiamento ambiguo dei mondi e di tutti i possibili piani di realtà: sanità e follia, sincerità e menzogna, realtà e sogno, utopia e distopia. In Parnassus c’è – esplicitamente – uno specchio a fare da tramite fra il mondo reale e quello immaginario, con cui il vecchio protagonista mette in contatto gli spettatori paganti del suo spettacolino con il loro mondo interiore, che sembra un sogno ma che diventa incubo con prevedibile facilità. C’è la consueta distorsione dello spazio di carrolliana memoria, che è una costante in Gilliam fin da quando faceva le sue animazioni folli per il Monty Python’s Flying Circus. C’è perfino il diavolo, novità relativa, con la faccia di Tom Waits, ma non è un personaggio cattivo, perché nei film di Gilliam i cattivi appartengono sempre alla realtà e non all’immaginazione.

Nel serraglio di visioni del regista, Parnassus è il film con le maschere. L’ultimo arrivato nella compagnia è un cialtrone mentirore lui stesso, ma per soldi e fama, e anche prima di tuffarsi nel mondo dietro lo specchio assume identità differenti a seconda dell’occasione: dietro lo specchio avrà direttamente volti diversi, anche se sarebbe stato più interessante, aldilà della questione umana e del divertimento di vedere quattro attori di nome accalcarsi negli stessi panni, vedere come Ledger avrebbe saputo gestire questa moltiplicazione. Nel mondo rovesciato che sta dietro lo specchio, dove l’identità si rivolta come un guanto, non c’è una vera e propria stabilità a dividere il bene e il male, ma diventano uno un particolare punto di vista dell’altro, come la vita e la morte. In un mondo che per definizione si sdoppia di continuo e dove tutto è menzogna, si salvano coloro che mentono per gli altri, muoiono coloro che mentono per sé stessi. Una riedizione più mutevole e obliqua della vecchia distinzione manichea fra buoni e cattivi. Si dice spesso che Gilliam, a modo suo, racconta fiabe. In realtà è più preciso dire che racconta di raccontatori di fiabe. Non è la fiaba in sé a interessargli, ma l’idea di chi vive per raccontarla, dell’affabulatore, del mentitore di professione. Non a caso è uno dei tanti registi caduti nel tentativo di portare al cinema il Chisciotte di Cervantes, l’archetipo dei personaggi che inventano mondi immaginari per andarci a vivere. Sam Lowry di Brazil, che osa sognare in una società che lo vieta, l’invasato predicatore schizofrenico de La leggenda del re pescatore, i Fratelli Grimm, James Cole che ne L'esercito delle 12 scimmie non sa nemmeno più quale realtà stia vivendo, la Jeliza-Rose di Tideland, che si trova di fronte un’esistenza talmente agghiacciante da dover inventare storie magiche per poterla sopportare, dandole un senso e tramutando l’orrore in fantasia. Raccontare storie, sovvertire il mondo reale con le armi della follia o dell’affabulazione (posto che non siano sinonimi) è un modo per salvarsi, per capire davvero: distorcere per rendere chiaro. Le fiabe diventano il mondo rovesciato, come nel carnevale medievale, mantenendo gli elementi reali in tutta la loro importanza, ma sovvertendo le gerarchie e le leggi, anche fisiche, fino ad una forma di rivelazione astratta, purissima. Il narrare di Gilliam (a differenza, ad esempio, di quello di Burton) è tutto fuorché una fuga, è un vedere oltre, su un piano più puro: e chi racconta le storie, che necessariamente sta in bilico fra i due mondi ed è quindi un outsider, un pazzo, un invasato o un visionario, diventa di conseguenza un agente della verità attraverso la menzogna, un ruolo con qualcosa di mistico al suo interno. In Parnassus, l’unico modo per smascherare il male è attraversare lo specchio, dove si può vedere nell’immaginario delle persone e la realtà, fattasi allucinazione, non può più mentire. Nei film di Gilliam, il mondo reale è quello immaginato, e i suoi eroi sono i disperati che, non avendo alcun interesse nel mondo, possono comprendere che l’immaginario è la realtà spogliata di ogni sua falsità, e da ogni calcolo. Le storie (menzogne disinteressate) non solo salvano, ma costituiscono anche un atto di accusa tanto più potente quanto più inconsapevole.

Gilliam non ha una poetica coerente, ma è colto. È per questo, per inciso, che non ha una poetica coerente. Regista manicomiale per eccellenza, attratto dai santi folli, crede nel nonsense dei surrealisti, nell’andare a ruota libera perdendosi in libere associazioni più o meno dementi, crede nella menzogna, negli uomini che si credono dio e che raccontano storie bislacche di cui essi stessi non afferrano il senso, perché non è in una storia in particolare che sta la salvezza, come dicono le religioni, ma nel raccontare storie, vere o false che siano. Il vecchio Parnassus millenni prima della storia del film era un monaco, in un monastero antico come lui cantava continuamente la storia che sorregge il mondo. Poi arrivò il diavolo e ammutolì i monaci (la scena, va detto, è terribile), e il mondo non smise di esistere, perché è la totalità delle storie che sorregge il mondo, e non una precisa che diverrebbe dogma, così come è la totalità degli individui che costituisce l’umanità e non un singolo individuo che detta legge agli altri. Sono le menzogne che salvano la civiltà, coloro che raccontano balle e fiabe senza guadagnarci nulla, e senza pensare troppo a raccontarle per uno scopo particolare, che sia convincere, intrigare, corrompere. Gilliam non impone, ma propone storie. La democrazia della narrazione prevede che ci si perda nella contemplazione di un flusso di immagini preservate da una direzione precisa, perché nella meraviglia pura ognuno possa ritrovare, senza costrizioni, la possibilità di capire. Capire cosa, poi, è un discorso diverso, e ognuno deve farlo per conto suo.

 


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