Piccoli affari sporchi PDF 
di Livio Marciano   

Okwe, un immigrato clandestino nigeriano (medico al suo paese) è costretto, per sopravvivere a Londra, a svolgere due mestieri: di giorno fa l'autista e di notte il portiere d'albergo. All'interno di una delle camere dell'albergo in cui lavora, avvengono fatti alquanto strani. Riuscirà a risolvere l'enigma con l'aiuto di Senay, un'immigrata turca innamorata di lui.

Stephen Frears è decisamente un buon regista: conosce molto bene il mestiere, supportato da un significativo curriculum. Questo nuovo film conferma le sue capacità. Dal punto di vista registico è impeccabile. Molto indovinata la scelta di seguire con inquadrature strette tutti i protagonisti.

La città è Londra ma una Londra alquanto anomala, che non si vede, né tantomeno si vedono i londinesi.
Okwe non compare mai a figura intera. La pellicola è contraddistinta da spazi molto stretti, a sottolineare una condizione quasi claustrofobica dei personaggi.

Il mondo dell'immigrazione clandestina viene rivelato in tutta la sua natura di incubo, di chiusura verso il mondo esterno. Coloro che agiscono all'interno di questo mondo sono immigrati: i clandestini (la parte più sfruttata) e quelli più o meno regolari.

Frears non concede speranze ai clandestini, né conforto: essi sono costretti a vivere nell'ombra, nell'oscurità, sfruttati da persone che al pari di loro sono immigrati ma contraddistinti dalla superiorità di un permesso di soggiorno. L'unico "regolare" che ha una valenza positiva è il medico cinese Guo Yi, amico di Okwe, tuttavia è costretto a vivere in una sorta di limbo, nell'obitorio con i morti di cui si occupa in quanto medico legale. Nei confronti di questi ultimi si distingue il giudizio negativo di Frears: essi sono dei kapò, aguzzini pronti a sfruttare ogni attimo della vita e del corpo dei clandestini.

Sul corpo, e soprattutto come il regista ce lo mostra, è opportuno fare una riflessione. Il corpo dell'immigrato clandestino è sfruttato in ogni sua parte: il corpo della donna come strumento di piacere (la prostituta Juliette, la fellatio di Senay al laido padrone della sartoria), il corpo come strumento per arricchirsi e come contenitore di preziosa merce (organi, nella fattispecie reni) che consente agli aguzzini di speculare, indifferenti alle sofferenze di persone disperate.

Il clandestino è disposto a cedere una parte preziosa del suo corpo per ambire ad un posto nel "paradiso" dei "regolari". L'operazione è smascherata da Okwe, medico un po' angelo custode dei deboli (lo affermerà durante il film anche la prostituta Juliette, sua amica) che cerca di ribellarsi all'oltraggio continuo di cui è vittima anche la ragazza innamorata di lui.

La coprotagonista femminile, Senay, ha un ruolo molto importante nel dipanarsi del film. All'inizio è una ragazza ingenua, molto legata alle tradizioni del suo paese (la Turchia) ma presto dovrà fare i conti con la spietatezza del mondo, che la costringerà dapprima a perdere l'innocenza sessuale e, in seguito, a rischiare di perdere un rene.

Il suo percorso è una sorta di viaggio agli inferi, sottolineato dal passaggio nell'obitorio (il regno dei morti) e dall'arrivo in albergo per l'operazione al rene che dovrebbe concederle la libertà.

L'albergo è l'inferno (lo dice il cattivo Juan) e il portiere viene paragonato a Caronte (come fa notare Guo Yi allo stesso portiere). La ragazza uscirà dall'inferno, ma non sarà più la stessa persona: non è casuale la perdita della verginità nell'albergo stesso.

Il finale sancisce la maturità della ragazza. All'inizio del film Senay vagheggiava l'America come un sogno, come testimoniava una cartolina di una parente in bella evidenza nell'appartamento condiviso con Okwe. Alla fine lei stessa capirà che l'America non sarà altro che un'ulteriore tappa della sua vita, ma di una vita dura, conquistata, una vita che sa di sopravvivenza; non si vive, come dice lo stesso Okwe, si sopravvive.

Quando Okwe cercherà di rendere meno difficile la loro separazione descrivendo gli alberi di New York tutti illuminati, cercando di fare immaginare il paradiso terrestre rappresentato dalle luci, sarà la stessa ragazza a sentenziare: "tanto so già che non sarà così"; dichiarandosi ormai implicitamente pronta ad affrontare questa nuova avventura.

Il film nel complesso è interessante, tuttavia proprio il finale presta il fianco a qualche critica. Rigorosa la regia, ma la sceneggiatura, dal momento in cui la ragazza entra in albergo per l'asportazione del rene, latita, diventa tutto fittizio, troppo conciliatorio, troppo smaccatamente hollywoodiano (Frears ha notoriamente precedenti hollywoodiani, seppure di qualità).

Non è credibile che il "padrone cattivo" si faccia raggirare come un'educanda e venga operato al posto della ragazza; non è credibile che nel traffico di organi, traffico così delicato e rischioso, il corriere si trovi davanti tre sconosciuti e si limiti a dire semplicemente: "Dov'è Juan?", e alla risposta di Okwe "E' ubriaco", ribatta: "come mai non vi ho mai visto?". A questo punto c'è il momento peggiore del film in cui Okwe si rende protagonista di una tirata retorica contro lo sfruttamento degli immigrati che risulta di un moralismo un po' stantio e anche piuttosto sterile.

Un finale che stona con il rigore di tutto il film. Non bastano i fotogrammi finali, che ci mostrano la ragazza in partenza per l'America da sola e il protagonista che ritrova il coraggio di ritornare dalla figlia abbandonata in Nigeria, a renderlo meno indigesto.

Questo "pessimismo ottimista" lascia perplessi perché il film, fino a quel momento tutt'altro che banale, viene automaticamente appiattito. Con un finale adeguato Piccoli affari sporchi sarebbe risultata una delle migliori pellicole dell'anno.

 


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