La nostra vita PDF 
Andrea Bettinelli   

Claudio (Elio Germano, premio come miglior attore al Festival di Cannes) è un muratore romano sposato con Elena (Isabella Ragonese). Hanno due figli, e un terzo è in arrivo: si chiamerà Vasco, in onore della loro comune passione per Vasco Rossi. Fin dalle prime battute, Claudio si caratterizza come un personaggio di estrazione popolare e borgatara, semplice, devoto alla famiglia, a sottolineare, da subito, la volontà degli autori di mettere in scena un ambiente domestico medio, caratterizzato da riferimenti che vorrebbero essere il più possibile "normali", dal centro commerciale alla cultura musicale popolare.

Il racconto si sviluppa così su due binari paralleli, la famiglia e il cantiere, la vita privata e quella pubblica. Si passa dalle faccende di casa a quelle del lavoro. In questo correre sul filo degli aspetti della vita materiale di un uomo qualsiasi, è possibile ravvisare un elemento ricorrente dell'attuale cinema italiano, sempre più focalizzato sulla rappresentazione di una realtà minuta, descritta non tanto in chiave poetica, e forse nemmeno in chiave sociologica. Piuttosto, come terreno di una possibile identificazione da parte del pubblico, chiamato a rispecchiarsi in alcuni elementi chiave ricavati dal suo vissuto o dal suo immaginario. Si pensi, per citare solo un esempio, alle opere dell'ultimo Soldini (Giorni e nuvole e Cosa voglio di più), un regista solitamente lieve e sulfureo, ma ora sempre più ripiegato sui problemi, i luoghi, le caratterizzazioni dell'economia domestica. Guardando a lui, ma anche a Virzì, D'Alatri, Ozpetek o Muccino, è ravvisabile un'aspirazione sempre più evidente da parte del nostro cinema di porsi come momento di autorappresentazione collettiva, raccogliendo in questo modo la sfida lanciata dalla televisione, il mezzo che ancora oggi, più degli altri, persino più di internet, svolge la funzione di specchio identitario nei confronti delle generazioni più vecchie e di quelle più nuove. Indistintamente. Per certi aspetti, può darsi che questo gioco di specchio funzioni. Ma la forza evocativa e simbolica del cinema ne risulta inevitabilmente indebolita, troppo compressa da questa preoccupazione di intercettare un gusto comune che nasce dall'eccessiva esposizione ad altri media.

Il prologo iniziale del film si chiude in modo tragico: Elena perde la vita dando alla luce il bambino. La sequenza in cui il personale dell'ospedale comunica la notizia a Claudio è peraltro una delle migliori, raccontata con grande parsimonia espressiva, con un primo piano del protagonista che lascia fuori campo i medici e con l'audio che va sfumando. Con un'arte della sottrazione che è la forza del cinema. La morte di Elena rappresenta, ovviamente, la svolta drammaturgica del film. Rimasto vedovo, Claudio decide di non limitarsi più a fare il manovale. Vuole diventare imprenditore ed entrare nel mondo dei subappalti. Spiega lui stesso il perché a Porcari (Giorgio Colangeli), il palazzinaro per cui ha sempre lavorato come dipendente: se i suoi figli hanno perso la madre, allora saranno ricompensati sul piano della ricchezza materiale. È questo un passaggio chiave su cui vale la pena soffermarsi. La sintesi morale del film è tutta in questa rappresentazione di un'umanità che entra in crisi per inseguire il mito del benessere. Eppure, dal punto di vista della coerenza e credibilità drammatica, questa svolta del protagonista appare davvero troppo programmatica, troppo scritta. Il tema intimistico e soggettivo del lutto, e quello empirico, oggettivo, dell'avventura imprenditoriale, non sembrano legati in modo convincente. Forse gli autori (il regista, insieme agli sceneggiatori Rulli e Petraglia) hanno inteso obbedire ad una delle regole auree della drammaturgia classica, quella che consiglia di non rappresentare un personaggio in modo troppo negativo,  pena il venir meno di quel meccanismo empatico che spinge il pubblico alla comprensione. Nella tragedia e nel poema antico, per suscitare la pietà verso un personaggio negativo, il poeta ne uccideva il figlio. Nel dramma moderno di Lucchetti, a morire è la moglie. Claudio si appresta così a commettere diverse nefandezze, sapendo che chi lo guarda capirà.

Ma riprendiamo il filo della trama. Per entrare nel mondo dei subappalti, Claudio ricorre innanzitutto al ricatto: sa che Porcari nasconde in un cantiere il cadavere di un operaio clandestino (proveniente dalla Romania) e per questo lo obbliga a cedergli in subappalto una palazzina. Per finanziare l'avvio dei lavori si fa prestare 50.000 euro da un vicino di casa, Ari (Luca Zingaretti), che di mestiere fa il pusher. Porcari, l'imprenditore senza scrupoli. Ari, lo spacciatore. Dovrebbero essere personaggi negativi, eppure gli autori sembrano aver comprensione anche per loro, mostrandone soltanto il lato umano e vulnerabile. Ed è forse proprio questa bontà di fondo ad essere il limite maggiore de La nostra vita: un film sul male del mondo popolato solo da vittime, come è possibile? Gli autori intendono senz'altro mostrare come sia labile, nell'Italia di oggi, il confine tra il bene e il male. Come ad essere cattive non siano le persone, ma il sistema stesso. Come ci sia una sorta di giustificazione sociale ai peccati degli individui, che finiscono per essere quasi deresponsabilizzati. Ma il racconto ne risulta come indebolito, troppo morbido, troppo indulgente. L'avventura di Claudio negli affari finisce malissimo. Si indebita. Lo salva la famiglia, la sorella Liliana (Stefania Montorsi) e il fratello Piero (Raoul Bova), che gli prestano i soldi con i quali riesce a riprendersi e a ricominciare. Quasi che il film voglia individuare nella famiglia e nella solidarietà degli affetti l'unica via di salvezza in un mondo che ha perso ogni orizzonte valoriale.

La debolezza de La nostra vita è poi confermata dalla sua incapacità di sviluppare quello che, nelle intenzioni, dovrebbe essere il secondo filone narrativo del film, il cui centro è rappresentato dalla morte dell'operaio rumeno. Sul cantiere di Claudio, ad un certo punto, si presenta il figlio, che sta cercando il padre scomparso. Claudio, un po' per senso di colpa, un po' per sincera compassione, lo assume, lo ospita in casa, lo fa diventare uno della famiglia. Finché il ragazzo scopre la verità. Anche qui: tutto troppo abbozzato, tutto troppo slegato, quasi si trattasse di un corpo estraneo al film. Gli autori, insomma, impostano una serie di temi di grandissima rilevanza per poi abbandonarli senza un'adeguata esplorazione. Li sfiorano, senza approfondirli: nulla sappiamo dei problemi di Claudio come genitore, nulla della sua elaborazione del lutto, la cui analisi viene affidata ad un'unica scena di taglio televisivo, quando al funerale di Elena lo vediamo cantare a squarciagola, insieme agli amici, la canzone di Vasco Rossi che ispira il titolo del film. Ed ecco di nuovo quel realismo. Non il realismo umanistico dei nostri maestri, nobilitato da una stilizzazione poetica, e nemmeno il realismo documentaristico di stampo moderno, alimentato da un'interrogazione sociale. Piuttosto un racconto in cui rifluisce la cultura materiale e popolare dell'oggi, i riferimenti più banalmente sociologici, il linguaggio musicale e televisivo. Il tutto finalizzato ad ammiccare ai gusti del pubblico.

TITOLO ORIGINALE: La nostra vita; REGIA: Daniele Luchetti; SCENEGGIATURA: Daniele Luchetti, Sandro Petraglia, Stefano Rulli; FOTOGRAFIA: Claudio Collepiccolo; MONTAGGIO: Mirco Garrone; MUSICA: Franco Piersanti; PRODUZIONE: Italia; ANNO: 2010; DURATA: 100 min.

 


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