Le conseguenze dell'amore PDF 
Marco Doddis   

A distanza di più di un lustro dall’epoca della sua realizzazione, Le conseguenze dell’amore appare ancora oggi come un oggetto fresco e incapace di stancare. L’occhio dello spettatore affezionato si è ormai abituato al cinema di Paolo Sorrentino, ne riconosce i fondamenti estetici, ne apprezza le invenzioni. Tuttavia, ripercorrere la genesi di quel cinema è un esercizio utilissimo, non solo per meri scopi filologici. La genesi si chiama L’amore non ha confini, il primo corto importante del regista napoletano, datato 1998; si chiama L’uomo in più, esordio nel lungometraggio che lo rivelò al panorama italiano; si chiama, soprattutto, Le conseguenze dell’amore, il film che, meglio di tutti gli altri, rivela la summa della sua poetica. Non ci sono amici di famiglia e divi, politici o rock, che tengano: il secondo film di Sorrentino, pur non essendo la sua opera migliore (difficile togliere lo scettro a Il divo), rappresenta la conditio sine qua non del suo cinema. Cinque David di Donatello e tre Nastri d’Argento rendono l’idea dell’impatto scatenato dalla pellicola quando planò sugli schermi italiani. I premi e i riconoscimenti della critica contribuirono a rivelare il fenomeno Sorrentino al grande pubblico; un pubblico che, oggi, si nutre di nuovi ammiratori a mano a mano che la parabola cinematografica (e letteraria) del nostro si arricchisce di nuovi capitoli. Ma qual è il segreto del suo fascino? La regia, d’accordo; la fotografia del grande Luca Bigazzi, sempre più suo alter ego, certo. Ma l’impressione è che sia soprattutto un’originalità narrativa fuori dal comune a fare la differenza. Sorrentino è un bravissimo manipolatore di generi; riesce a catturare schiere di nuovi adepti perché sa trattare differenti tipi di cinema e, quindi, confrontarsi con differenti tipologie di pubblico. Dalla riscrittura del biopic politico (Il divo) alle variazioni sul road movie (This Must Be the Place), il regista campano riesce sempre a stupire.

E rieccoci a Le conseguenze dell’amore: è proprio là, in quell’opera meravigliosamente dissonante, che si può apprezzare per la prima volta, in maniera compiuta, quest’abilità nel dissimulare, nel nascondere le carte in tavola, per poi rivelarle in tutta la loro semplicità. Che cos’è, infatti, le conseguenze, se non un thriller? Non è forse un noir all’italiana in cui si racconta la vicenda di un ex commercialista finito nelle mani della mafia e costretto da questa a ripulire denaro sporco in Svizzera? Stop. L’ignaro spettatore, leggendo una sinossi così superficialmente stilata, mai si attenderebbe un film come quello in questione; non saprebbe che il noir e il thriller, nelle mani di Sorrentino, diventano vicende profondamente umane. Titta di Girolamo, a cui presta il volto catalettico un monumentale Toni Servillo (all’epoca del film, anche lui fu una mezza scoperta per il nostro cinema, sempre alla ricerca di giovani promesse e magari disattento a talenti non di primo pelo, ma ricchi di esperienza), è, oltre che un ex commercialista che "era qualcuno nella borsa", un ex marito, un ex padre, un ex fratello, un ex amico, un ex cittadino italiano. Insomma, a dirla tutta, è proprio un ex uomo. Trascorre la sua esistenza in un hotel del Canton Ticino, tra una partita ad asso pigliatutto con l’ex proprietario (Sorrentino, confermando il suo intuito fisionomista, compì un capolavoro, rispolverando per la parte dell’incallito giocatore d’azzardo il vecchio Raffaele Pisu, che vinse addirittura il Nastro d’Argento come migliore attore non protagonista e si avviò a un decennio di seconda gioventù artistica tuttora in corso: solo in questa stagione, lo abbiamo visto prima con Ricky Tognazzi in Tutta colpa della musica e poi con Claudia Gerini ne Il mio domani di Marina Spada) e una dose di eroina settimanale, tutti i mercoledì mattina. Separato dalla moglie da dieci anni, con tre figli che lo disconoscono, la vita di Titta è scandita da rituali metodici, tra i quali spicca il ritiro, dalle mani di una bionda dark lady, di una valigia con i quattrini sporchi destinati alla banca. Le sue relazioni umane sono pessime, come attesta l’incontro con il fratellastro, un Adriano Giannini fuori parte. Il suo mondo è freddo, asettico.

Ma Titta non è completamente in preda all’atarassia. Ha delle emozioni, ma pare che queste lo abbiano seguito nel suo esilio, andando a imprigionarsi in un albergo che si chiama cuore. Per certi versi, la sua condizione è simile a quella del protagonista de Il deserto dei Tartari. Entrambi cercano di dare un senso alla propria inutile vita. Nel romanzo di Buzzati, Giovanni Drogo attende i Tartari; nel film di Sorrentino, Titta attende proprio l’epifania di quelle emozioni sopite, ma disposte a ridestarsi. La regia di Sorrentino ci accompagna in questo processo di risveglio, attraverso movimenti di macchina e scelte di montaggio la cui dinamicità si accresce con l’avanzare del percorso del protagonista. In questo senso, il momento determinante è quello dell’incontro con il fratello. In particolare, c’è un’inquadratura che, da sola, costituisce il primo e più rilevante punto di svolta della vicenda interiore: "Te lo ricordi Dino Giuffrè, il nostro vicino di casa?", chiede Giannini a Servillo. La macchina da presa piomba sul volto del protagonista, accompagnata da un brevissimo intermezzo musicale. La velocità della carrellata ottica e il lirismo, fino a quel momento insolito, della musica suggeriscono che il cambiamento interno è iniziato. E sarà un processo inesorabile: il ricordo di quello che era il suo miglior amico, finito a riparare le linee elettriche in mezzo alle montagne, gli procura una sensazione indecifrabile. Lo sfogo immediatamente successivo della bella barista dell’albergo, che a Di Girolamo è tutt’altro che indifferente, completa l’opera: "Insomma, io sono due anni che lavoro qui. E ogni giorno la saluto e lei non mi risponde. Per caso si è accorto che io esisto?", sbotta l’ermetica Olivia Magnani (bella e brava; più bella che brava, ma, purtroppo, con quel cognome, il rischio di paragoni fuori luogo tende a penalizzare i giudizi). Da quell’istante di shock, Titta esce con una consapevolezza: è il momento di accettare le conseguenze dell’amore: "Forse – le rivela nel successivo incontro – sedermi a questo bancone è la cosa più pericolosa che ho fatto in tutta la mia vita". Parole sante. Il riscatto morale si traduce presto in una piena presa di coscienza delle proprie azioni. E scatta la rivolta, dettata dalla stanchezza della connivenza-schiavitù con la mafia. La situazione precipita (nell’evoluzione forse affrettata e talvolta ingiustificata della sceneggiatura risiede sicuramente il neo più grosso dell’opera. In particolare, si avverte uno scollamento tra la prima parte, che rasenta la perfezione, e l’ultima, molto più ordinaria): Titta è destinato a una fine inevitabile. Ma non importa: dopo aver vissuto da inetto, il nostro riesce almeno a morire da uomo, rivolgendo un ultimo pensiero proprio a quel Dino Giuffrè, che aveva rappresentato il riferimento umano più genuino della sua vita. Le ultime immagini, nonostante le montagne e la neve, offrono una sensazione di calore che stride, volutamente e mirabilmente, con la precedente ora e mezza di film.

Fino all’ultimo secondo, dunque, Sorrentino dimostra di sapere toccare tutte le note, senza strafare e trovando una felice convivenza tra registri molto diversi: pensare che l’ultima riflessione su Dino Giuffrè, così composta e delicata, sta nella stessa pellicola dove vediamo un mafioso vagamente tarantiniano che canticchia Ornella Vanoni, è un esempio della felice incoerenza del regista napoletano. Anche la colonna sonora, che accosta Rossetto e Cioccolato con i motivi essenziali di Pasquale Catalano, permettendosi più di un’incursione nell’elettro-rock, dimostra quanta sia la maestria del direttore d’orchestra.

TITOLO ORIGINALE: Le conseguenze dell’amore; REGIA: Paolo Sorrentino; SCENEGGIATURA: Paolo Sorrentino; FOTOGRAFIA: Luca Bigazzi; MONTAGGIO: Giogiò Franchini; MUSICA: Pasquale Catalano; PRODUZIONE: Italia; ANNO: 2004; DURATA: 100 min.

 


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