Rick Deckard: un Detective "futuribile” che corre sul filo del rasoio... PDF 
Vittoria Bichi Ruspoli   

La fiamma che arde col doppio d’intensità, dura la metà del tempo

2019. In una Los Angeles del futuro dominata da un cielo plumbeo, da un’ incessante pioggia radioattiva, e da gigantesche insegne pubblicitarie, Rick Deckard (Harrison Ford), ex-agente della squadra speciale Blade Runner, è richiamato in servizio per eliminare (o “ritirare” per dirla nel gergo degli agenti) quattro replicanti modello Nexus 6, indistinguibili dall’uomo se non per mezzo dell’avanzatissimo test Voigt-Kampff, in grado di rilevare dalle contrazioni dell’occhio la presenza o meno di reazioni emotive. I quattro sono evasi da una colonia extra-mondo, dove venivano impiegati come schiavi, per ottenere dall’ingegnere che li ha progettati un prolungamento della loro vita.

Il soggetto si basa su un romanzo di Philip K. Dick, precursore della letteratura cyber-punk, dal titolo Do androids dreams of electric sheep? (1968), edito in Italia come "Il cacciatore di androidi". Le pecore elettriche a cui si riferisce il titolo di Dick sono i surrogati degli animali veri e propri, drasticamente ridotti a causa dell’inquinamento e diventati un bene di lusso accessibile a pochi eletti. Nel film questo elemento scompare del tutto, ma non costituisce l’unica modifica che Scott ha apportato all’originale. Nel trasferire sullo schermo il personaggio di Deckard, il regista si discosta completamente dal suo modello: nel romanzo il cacciatore di androidi appariva come un uomo comune, grigio e impacciato, marito e padre di famiglia, che deve pensare a guadagnarsi da vivere, e la sua storia con la donna androide era presentata come una squallida evasione dalla routine, ben lontana da ogni possibile implicazione sentimentale.

Il personaggio incarnato da Harrison Ford (inizialmente si era pensato a Dustin Hoffmann) è, invece, una sorta di Sam Spade del futuro, dai modi burberi e dal bicchiere facile, costretto a confrontarsi con l’antipatia dei suoi superiori e con le sue stesse fragilità emotive. Un uomo messo a dura prova da una vita che è stata un fallimento ma che, nonostante tutto, è ancora in grado di portare avanti dei principi morali. Numerosi sono i riferimenti al genere hard-boiled disseminati nella pellicola: la figura del detective, appunto, ma anche quella di Rachel (Sean Young, che le conferisce la giusta carica di ambiguità), la dark-lady che fa vacillare le sue convinzioni; la corruzione della polizia, la tessitura losca della città dove si muovono individui ambigui dediti a traffici di ogni sorta (il quartiere in cui si muove Deckard dove domina la componente asiatica della popolazione, può essere letto come un rimando a Chinatown, altro classico di genere). La stessa voce fuori campo del detective, voluta dai produttori per esigenze di chiarezza ma fortemente osteggiata da Scott, è un rimando alle pellicole classiche del cinema noir, dove il protagonista commenta le sue vicende retrospettivamente (La fiamma del peccato, L’ombra del passato).

Deckard non è nuovo nel mestiere di cacciatore di replicanti (termine che Ridley Scott ha voluto sostituire all’ormai logoro “androidi”), anzi è un killer piuttosto esperto e riconosciuto come tale dai colleghi. Ma in lui adesso è cambiato qualcosa: vorrebbe rifiutarsi, tirarsi indietro, farebbe volentieri a meno di questa esecuzione incondizionata. Piuttosto è alla ricerca di uno scopo che lo aiuti a continuare a vivere con dignità. Ma capisce di non avere molta scelta. Appartiene ad un mondo dove “o sei nella polizia o non sei nessuno”, poco importa se la polizia è rappresentata dal cinico capitano Bryant, e dal suo tirapiedi Gaff, individuo viscido e detestabile.  Nella caccia ai replicanti, il detective acquista progressivamente la consapevolezza che quelle creature programmate per non provare sentimenti ed emozioni, sembrano possedere intimamente una disarmante umanità che le rende preferibili a molti dei suoi consimili. E’ il caso di Rachel, replicante inconsapevole, vittima di un esperimento del suo creatore Eldon Tyrell, che l’ha dotata di una memoria artificiale con l’ausilio di “innesti”, come supporto per poter controllare meglio le sue reazioni emotive inaspettate. Deckard rimane rapito da questa creatura, dal suo essere così fragile e vulnerabile, dalla sua sensibilità artistica (suona il piano divinamente). Dimostrando di sfuggire ad ogni programmazione, Rachel per salvarlo arriverà ad uccidere Leon, un altro replicante e dunque un suo simile, mentre Deckard inizierà a credere che non c’è motivo per non amare una creatura così affine a lui; dopotutto anche lei può piangere, anche lei può sentirsi ferita, anche lei può avere dei ricordi, magari prefabbricati, ma pur sempre dei ricordi che ella crede suoi.

Tema ricorrente nel film è la difficoltà di discernere l’essere umano dal replicante. La differenza sostanziale tra i due esseri sta nella presenza o meno di un bagaglio emotivo. I Nexus 6, per quanto esseri perfetti dotati di una forza fisica e di un’ intelligenza di gran lunga superiori a quelle dell’uomo, non sono in grado di provare sentimenti ed il loro creatore, proprio per questo, li ha programmati per vivere solo quattro anni, prima che possano acquisire coscienza di sé e sviluppare moti dell’animo tipicamente umani, quali la rabbia, l’amore, la sofferenza, la pietà. I replicanti, consapevoli della loro finitezza e imperfezione, come moderni Lucifero si ribellano ai limiti posti dal loro artefice e formulano un desiderio tipicamente umano (“più umano dell’umano” recita lo slogan della fabbrica Tyrell): ottenere, se non l’immortalità, almeno un’ estensione di durata delle loro esistenze . Ma l’artefice, il mad doctor, il padre, non può accontentarli, anche lui “ha i suoi limiti”, e Roy Batty (un glaciale Rutger Hauer), il capo dei Nexus 6, in uno straziante confronto, lo uccide strappandogli gli occhi.


Blade Runner, universalmente riconosciuto come uno dei capisaldi del cinema di fantascienza, è difficilmente incanalabile in codifiche semplicistiche e restrittive definizioni. Le tematiche affrontate e lo stile impiegato, lo rendono un film di uno spessore molto superiore alla semplice classificazione di genere.  L’ “eroe” Deckard non compie avventure spaziali spinto dallo spirito dei pionieri, ma al contrario combatte in un mondo degradato, battuto perennemente dalla pioggia, annebbiato dal fumo delle ciminiere, desolato a causa della follia degli uomini e del loro distorto utilizzo della tecnologia. In tutto il film prevale un senso di costante imperfezione: l’imperfezione dei replicanti che hanno una vita troppo breve a loro disposizione, l’imperfezione del creatore che non può riprogrammare le sue creature, l’imperfezione degli uomini che per poter affermare la loro individualità sono costretti a liberarsi degli esseri altri-da-loro. E l’imperfezione del detective, sempre in bilico tra il mondo di cui fa parte, dominato da meccanismi al quale si sente estraneo, e il mondo dei non-umani che è costretto a fronteggiare, ma al quale si sente maggiormente affine.

I replicanti, così diversi l’ uno dall’altro da mimetizzarsi perfettamente tra gli esseri umani, attraverso una ribellione silenziosa, strisciante, mai fragorosa (e anche in questo sta la forza del film), si oppongono più che alla loro condizione di schiavi, alla predestinazione delle loro brevi vite. E forse, proprio per rivendicare un potere decisionale, Roy Batty non fa quello che ci aspetteremmo da lui, non uccide Deckard per vendicare la morte dei suoi simili; dopo una lotta estenuante e di grandissimo impatto emotivo in cui lui risulta senza dubbio il più forte, salva il suo carnefice impedendogli di cadere nel vuoto. Per lui, invece, “è tempo di morire ”. La vita immessa nell’artificio trascina in basso la stessa idea di vita umana. L’artificio tecnologicamente avanzato, capace di sfiorare il limite della perfezione, rivela all’uomo come la sua stessa vita non sia che un pessimo surrogato. In questo modo l’uomo stesso si rende simile al proprio analogon, in una angosciosa vertigine. Per Dick gli androidi erano macchine prive di personalità, identificabili con il male assoluto, per Scott è l’uomo ad essere inadeguato, costretto a rimediare agli errori dei propri simili, uccidendo il prodotto di quegli stessi errori, ormai fuori controllo. L’androide, da parte sua, ragiona, si interroga sulla propria condizione (“penso, dunque sono” dice Pris, rimando al cogito cartesiano di cui anche lo stesso nome del detective è emblematica evocazione), e costringe l’uomo a fare lo stesso con la sua.

I grandi temi di carattere sociale e filosofico, tuttavia, non devono far perdere di vista l’alto valore figurativo del film: Scott, diplomato alla Royal College of Art di Londra, ha voluto dare una chiara direzione stilistica alla pellicola servendosi della consulenza del progettista Syd Mead, e ispirandosi ai lavori di Moebius per le architetture e gli interni. Con l’ausilio degli splendidi effetti fotografici di Jordan Cronenweth, il regista è riuscito a ricreare una Los Angeles futuristica, sempre illuminata da luci di insegne e navicelle, eppure sempre pervasa da un’ opprimente oscurità. Lo spettatore si trova immerso in un mondo opprimente, notturno, dove una massa informe di lingue e razze si riversa sulle strade. A scandire il tutto la musica di Vangelis, a metà tra l’ ambient e l’elettronica, incalzante, precisa e anche ammaliante, ma sempre incisiva.  Il film ebbe una genesi molto travagliata (il primo progetto risale al 1974), e dopo l’uscita nelle sale non ottenne immediatamente l’ adeguato entusiasmo, ma negli anni successivi divenne un vero e proprio cult (basti pensare al discorso di Rutger Hauer “Ho visto cose...” ormai incastonato nell’ immaginario collettivo), manifesto visionario e potente dell’eterna sfida dell’uomo ai limiti imposti dalla natura.

Ma i detective sognano unicorni? Deckard replicante nella versione Director’s Cut.

Nel 1991 venne messa in commercio una nuova edizione del film, The director’s cut, titolo che indica come il montaggio definitivo sia opera della volontà del regista e non di imposizioni di carattere produttivo. La nuova versione presenta poche modifiche, ma tutte abbastanza considerevoli rispetto al risultato finale. Per prima cosa è stata soppressa la voce off del detective, ma con questo taglio sembra essere venuta meno anche quell’atmosfera noir che contribuiva a rendere Blade Runner un film che parla del futuro con un occhio rivolto agli anni Quaranta.  L’altra novità è l’abolizione del finale “ecologico” e rassicurante con Rachel e Deckard che si allontanano sullo sfondo di una foresta irradiata dal sole, (furono utilizzate delle scene girate inizialmente per Shining e poi scartate), sostituita da un epilogo più aperto: i due lasciano l’edificio dove lui vive, ma non ci è dato di conoscere il destino che li aspetta.

Le terza novità, e di certo la più rilevante, è di ordine tematico: nella nuova versione serpeggia l’idea che anche Deckard sia, in realtà, un replicante. Per avvalorare tale ipotesi è stata inserita una nuova scena: Deckard, assopito sul pianoforte, sogna un unicorno che corre nella foresta. Questo sogno ci induce a pensare che anche lui, come Rachel, probabilmente possiede ricordi artificiali, dovuti ad innesti. In questo modo il sogno va anche a spiegare la misteriosa scena della versione del 1982, in cui Deckard trova un origami a forma di unicorno sul pavimento del suo salotto. L’agente Gaff, che si diverte a disseminare i suoi origami un po’ dappertutto, sarebbe dunque a conoscenza dei suoi ricordi, trattandosi appunto di ricordi indotti e non spontanei. A ben vedere, ci sono molti altri elementi che concorrono a trasformare il blade runner in replicante.  In momenti particolari del film gli occhi dei non-umani presentano un piccolo bagliore rosso: lo stesso scintillio lo vediamo negli occhi di Deckard quando parla con Rachel nel suo appartamento. Inoltre, all’inizio della vicenda, il capitano Bryant mentre gli spiega la missione, parla di un altro replicante che è stato catturato dopo la fuga: potrebbe trattarsi proprio di Deckard, catturato e “riprogrammato” per uccidere i suoi simili. Il vero blade runner sarebbe dunque proprio Gaff che si presenta puntualmente dopo ogni “ritiro” e interferisce spesso nelle azioni di Deckard. Lo stesso Gaff, infatti, in una scena tagliata chiedeva al detective: “sei sicuro di essere un uomo? E’difficile da queste parti essere certi di chi sia chi”. Prima che Scott decidesse di omettere la voce fuori campo, la sceneggiatura prevedeva anche che Deckard, commentando lo scontro con Roy, aggiungesse una frase molto esplicita riguardo alla sua natura di androide: “quella notte sui tetti seppi che io e lui eravamo fratelli”.

Ma nonostante l’ipotesi molto affascinante della natura non umana di Deckard, che spiegherebbe la sua affinità con i replicanti e la sua insofferenza al mondo “normale”, forse sarebbe meglio preferire una lettura non univoca del personaggio, perché se tanti sono gli elementi a favore di questa tesi, tanti sono anche quelli che potrebbero farla crollare. Il film né nell’una, né nell’ altra versione (e nemmeno nella recentissima Final Cut, caratterizzata prevalentemente da interventi di rimasterizzazione e non da novità nei contenuti) ci dà delle certezze assolute: sta a noi leggere i segni, come sta a noi interrogarci,come i protagonisti della storia a cui assistiamo, sulla nostra vera natura.

 


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