Clarisse “Precious” Jones pesa 130 chili ma vaga come un fantasma tra le macerie umane della Harlem di fine anni Ottanta, un luogo dimenticato nel cuore dell’impero statunitense. Nascosta dietro l’indifferenza di chi non ha via di scampo sembra ignorare l’orrore che la circonda. Nel suo mondo abusi e violenze indicibili per la nostra “buona società” sono parte della sopravvivenza quotidiana, comuni e insignificanti come i suoi sogni formato MTV.
Lee Daniels, il regista di Precious, è bravo quando sceglie di mostrare una terribile normalità svelando la tragedia di Clarisse lentamente, con freddezza, senza abusare di pietà e compassione. Il suo sguardo rimane asciutto anche quando si posa sulle fantasie in stile videoclip della protagonista, che si concludono con risvegli violenti quanto un pugno nello stomaco. È molto meno bravo però a mettere in scena la presa di coscienza che dovrebbe essere il centro del film e invece risulta piuttosto debole, oltre a suscitare qualche dubbio di natura non strettamente estetica. Precious acquista consapevolezza di sé e del mondo imparando a scrivere, solo raccontando agli altri la propria storia riesce finalmente a vederla e a vedersi. Nel romanzo di Sapphire, da cui è tratto Precious, la parola di Clarisse, all’inizio poco più che un segno, diventa sempre più forte fino all’urlo finale trasfigurato in poesia. Nel film di Daniels il suo diario resta chiuso e tutta la potenza del discorso in prima persona, il brivido di un’autobiografia sgrammaticata, rimangono inespressi, soffocati in una timida voice over. La conquista del proprio spazio attraverso la lotta dello scrivere si trasforma in una concessione da parte di chi sta in alto, quasi sempre bianchi o neri che sembrano bianchi: la preside, l’insegnante, l’assistente sociale, l’infermiere (gli ultimi due interpretati forse non a caso da due neri, Mariah Carey e Lenny Kravitz, che ce l’hanno fatta e ora sono “come i bianchi”). In questo modo la rivolta dell’espressione viene rinchiusa e intrappolata tra le mura sicure dell’istituzione e Precious perde molta della sua carica esplosiva, finendo con l’essere non troppo diverso da quei tv-movie sui bravi maestri che arrivano nel ghetto a salvare le anime perdute.
E sono legati proprio a questa dimensione conflittuale edulcorata i dubbi su come il film abbia deciso di affrontare le questioni di razza e alternativa, termine quest’ultimo che ritorna costantemente all’interno della narrazione. Lo scontro di Clarisse con “l’alternativa” – parola della quale non conosce nemmeno il significato – sembra un evento qualunque che funziona all’interno di un meccanismo narrativo, privato di ogni violenza, a parte quella di poche lacrime, forse catartiche, ma insufficienti a restituire il dramma di chi come Precious vive nella “prigione della razza”. Il suo cammino verso un mondo ignoto e distante assume il carattere rassicurante dell’alterità irriducibile che svanisce per magia, e la complessa domanda di Du Bois, “un nero, un americano, possono essere entrambe le cose?” trova una risposta troppo facile. Così anche il finale – la fuga di Clarisse con i due figli in braccio, disperata e forte – che vorrebbe, riprendendo le ultime pagine di Sapphire, mettere in scena quella infinita ricerca di “[…] un sé migliore e più vero”, al di là dei neri e dei bianchi, lascia purtroppo indifferenti.
Note:
(1) Il riferimento qui come sopra è al saggio che apre Le due anime del popolo nero di W. E. Du Bois in W. E. Du Bois, Sulla linea del colore. Razza e democrazia negli Stati Uniti e nel mondo, Il Mulino, 2010
TITOLO ORIGINALE: Precious; REGIA: Lee Daniels; SCENEGGIATURA: Geoffrey Fletcher; FOTOGRAFIA: Andrew Dunn; MONTAGGIO: Joe Klotz; MUSICA: Mario Grigorov; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2009; DURATA: 110 min.
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