Vecchie e nuove pagine del Libro di Haneke PDF 
di Mattia Plazio   

Che cosa hanno in comune Non bussare alla mia porta, l'ultimo viaggio wendersiano nelle maglie dell' "american culture" e delle sue eterne contraddizioni, e Caché (Niente da nascondere nella traduzione italiana), inquietante (falso) thriller del maestro austriaco Michael Haneke? Assolutamente nulla, se non il fatto che entrambi sono stati presentati, con opposte fortune, all'ultimo Festival di Cannes per poi uscire in contemporanea sugli schermi italiani. Eppure, come nel più strano e intricato gioco delle interpretazioni, la visione delle due opere a distanza di pochi giorni l'una dall'altra ha rappresentato il pretesto, casuale, per "penetrare" meglio l'ultimo conturbante film di Haneke, per leggerlo sotto una nuova luce e comprendere appieno quella sensazione - davvero rara negli ultimi tempi - di essere di fronte ad un'opera straordinariamente compiuta, nella sua incompiutezza. Se Wenders, infatti, con Non bussare alla mia porta, restituisce di sé e del suo cinema un'immagine come di stanchezza, di noia, di statica e sterile ripetizione del proprio personale percorso in terra americana (stessi gli attori - ma invecchiati -, stesse le psicologie di personaggi in fuga da sé e dal mondo, stesso sguardo, intriso di speranza e di malinconia, nel descrivere gli immensi spazi dell'America libera, stesso itinerario Paris-Texas), compiendo di fatto un passo indietro rispetto al precedente e più problematico La terra dell'abbondanza, il regista austriaco, pur rimanendo anch'egli ben ancorato alle ossessioni che percorrono come un filo rosso tutte le pagine della sua opera, sembra invece compiere un'operazione più sottile e raffinata, oltre che più coraggiosa, consegnando allo spettatore un film "di Haneke", ma che nello stesso tempo non è più tale. È questo leggero scarto di prospettiva, questa deviazione impercettibile, ma fondante, dello sguardo sulla/della "propria realtà", a costituire l'aspetto più significativo di Caché e a farne il film che, nell'aggiornare, rinnovandoli, temi e aspetti del cinema di Michael Haneke - dalla descrizione di un ambiente borghese arido, squallido e alienante all'esplosione brutale di una violenza cinicamente, ma necessariamente, esibita, dall'indagine sulla crudele coincidenza fra la realtà e la sua rappresentazione allo sguardo raggelato e raggelante su un universo socio-morale paralizzato -, sancisce, come in una grande "opera contenitore", la sua piena maturazione, complice anche un equilibrio formale per certi aspetti magicamente inspiegabile.

Quale realtà?
Autore da sempre rigoroso, Haneke. Che scuote, che provoca. Il suo è un cinema disturbante, a tratti fastidioso, tanto da lasciare ogni volta nello spettatore, anche quello meno impressionabile, una sensazione di infinita sgradevolezza, simile a quella, dolorosa, di un pugno sferrato in pieno stomaco. Una sgradevolezza che nell'intera opera del regista austriaco (da Il settimo continente all'ultimo Il tempo dei lupi) risiede principalmente, oltre che nell'oggetto spesso crudo e inquietante della rappresentazione, nell'eccessiva "dose di realtà" cui il pubblico è sottoposto durante la visione, nel tentativo costante e scoperto di Haneke di annullare il marcato confine fra realtà e finzione attraverso procedimenti che vanno dalla scelta di non utilizzare un qualsivoglia commento sonoro (fatta eccezione per La pianista) a quella di privare la mdp, fissa e immobile, della sua funzione di filtro, limitando al massimo movimenti, cambi di prospettiva, raccordi, fino alla descrizione di personaggi spesso anonimi, di personalità assolutamente non eclatanti nei gesti e nelle reazioni. Lo spettatore si trova così nell'impossibilità di abbandonarsi piacevolmente alla visione, in un costante disturbo che lo accompagna fino alla fine dell'opera attraverso un progressivo senso di insoddisfazione e di frustante incompiutezza dovuto all'impossibilità di capire e di distinguere, alla sua strenua resistenza nel processo di identificazione in ciò che è vissuto come orrore e che il regista austriaco non ha timore né vergogna di mostrare. Con Caché Haneke, pur procedendo con rigore e coerenza sulla medesima strada, sembra tuttavia eludere questo "rischio" (essere impopolari è un peccato che pochi si possono permettere) diegetizzando radicalmente la dialettica realtà/finzione - operazione già in parte sperimentata, ma con modalità ed esiti radicalmente differenti, in Storie-Racconto incompleto di diversi viaggi e soprattutto in Benny's Video, uno dei film più crudeli e autentici sull'adolescenza -, concentrando magistralmente su di essa l'attenzione del pubblico e facendone il proprio personale "Mac Guffin". A ogni inquadratura lo spettatore è chiamato a interrogarsi sullo statuto dell'immagine cui si trova di fronte: si tratta della realtà in cui vivono i personaggi o della sua rappresentazione? E chi è l'artefice di tutto ciò? Chi terrorizza la famiglia di Georges? E perché? Il colpo di genio di Haneke sta nel lasciare il pubblico senza una risposta precisa, nel differire all'infinito, come in un complicato gioco di specchi, la soluzione dell'enigma per trasportarlo lentamente in quello che è il cuore (vero) del racconto, nel vissuto del protagonista, nel suo rimosso. E se fosse Haneke stesso a tormentare i suoi personaggi, in un'estrema e definitiva fusione dei due piani di significazione?

A che gioco giochiamo?
È proprio la presenza di una dimensione, per così dire, "ludica" - e non solo in riferimento alla dialettica realtà/finzione - a caratterizzare e contraddistinguere l'ultimo film del cineasta austriaco. Una dimensione che non prende tuttavia la forma "interna" del gioco sadico e disumano cui il carnefice sottopone le proprie innocenti vittime (vero topos del suo cinema), ma che qui aderisce invece alla stessa struttura di superficie del racconto. Sì perché con Caché, Haneke sceglie deliberatamente, e forse per la prima volta (Funny Games si pone da questo punto di vista su un livello ancora diverso), di frequentare un genere altamente codificato quale il thriller, avvolgendo così la propria storia della calda coperta di un sistema di simboli e di rimandi riconoscibili ai più. E con lei il suo spettatore, il quale, a fronte del disagio provato durante la visione delle sue precedenti opere, si trova ora, tutto di un tratto, in un rapporto più stretto con la materia narrata, è reso partecipe degli eventi, è chiamato all'interpretazione attiva, abbandonando così il suo ruolo di oggetto, passivo, verso cui proiettare soltanto violenza, terrore, inquietudine, disturbo. Tornano così cliché quali la famiglia terrorizzata da uno sconosciuto che ne spia i movimenti e che sembra conoscere il passato del protagonista, il rapimento del figlio e l'ansia, nonché l'angoscia, per la sua sorte, il sottile gioco dell'accumulazione degli indizi, la polizia che non si muove finché "non ha qualcosa di concreto in mano". Tuttavia, il gioco di Haneke comincia proprio da qui. Nel momento stesso, infatti, in cui il regista austriaco sceglie di fare il suo ingresso "nel genere thriller", compie anche, parallelamente, un percorso di sistematico tradimento delle aspettative - che culmina nel finale aperto -, spostando lentamente il proprio sguardo (e di conseguenza quello dello spettatore, ormai rapito) da un'altra parte, verso l'obiettivo reale del suo discorso. Si calano le maschere e d'un tratto, tra le righe, ecco ricomparire l'Haneke che conosciamo. Ecco riemergere allora la descrizione di rapporti basati sulla menzogna, di un ambiente familiare privo di affetti veri, nel quale regnano incomprensione e incomunicabilità, ecco riesplodere la violenza, questa volta significativamente mostrata e non più celata in spietati fuori campo, ecco ricomparire il tema dell'infanzia quale luogo di colpe e peccati più o meno inconsapevoli e gravidi di conseguenze, ecco, infine, il riaffermarsi dell'interesse verso gli adolescenti, la loro percezione del mondo, l'impatto che l'ambiente sociale ha su di loro. Ma questa è un'altra storia. O è quella vera?

La forma prima del contenuto
Film difficile, dunque, Caché. Difficile da interpretare, difficile da seguire. Il gioco di Haneke sembra spingersi oltre i confini del lecito, sfiorando la possibilità concreta di irritare i nervi scoperti dello spettatore, che non sa bene più a chi e a cosa credere. Il finale, che finale non è, può gettare nello sconforto perché, non sciogliendo l'enigma, lascia tutto in sospeso, ritrattando di fatto tutto ciò che si era visto, ed era stato fatto intendere, in precedenza. Sconforto che, razionalmente, può poi trovare un ulteriore riscontro nella constatazione (o nella scoperta) che diversi elementi nel film sembrano non trovare a posteriori una loro collocazione, una loro precisa funzionalità - come nel caso del "falso" rapimento del figlio Pierrot o del reale rapporto con l'onnipresente coppia di amici -, se non come ingredienti di semplice contorno. Eppure questi "buchi", apparenti, della narrazione finiscono per non infastidire, tanto è l'interesse verso una confezione che sa di perfezione, che sembra vivere su un precario, quanto straordinario, equilibrio formale. Con Caché il regista austriaco estremizza il proprio sguardo immobile e raggelato sulla realtà, se possibile scarnificando ancora di più il proprio intervento sull'immagine e sulla sua costruzione, liberando l'interpretazione degli attori da schemi e dialoghi troppo rigidi. E nell'estremo trova quell'equilibrio soltanto sfiorato nelle ultime, comunque importanti, opere quali La pianista e Il tempo dei lupi. L'alternanza fra primi e primissimi piani - a svelare i (l'assenza di) moti dell'animo dei protagonisti - e la desolante fissità degli asettici campi medi e lunghi - sempre incerti fra reale e virtuale, bloccati in attesa di un qualsiasi, impercettibile movimento che attesti una qualche forma di umanità - detta i tempi giusti, come mai fino ad ora, per il disvelamento di una realtà priva di una semantica dei sentimenti e dominata letteralmente dal Caso o, se si vuole chiamare in causa Kieslowski, dal Destino cieco. Di fronte alla quale non si chiede di capire, ma, umilmente, di sopportare.

 


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