Americana: il cinema di Sean Peen PDF 
Umberto Ledda   

ImageCome d'abitudine negli ultimi tre decenni, il successo di Sean Penn, così come si è consolidato negli anni '80 e '90, deriva in pari misura dalle capacità recitative e dalla turbolenta figura pubblica. Sullo schermo il ruolo di Penn, per una buona parte della sua carriera, è stato sostanzialmente omogeneo: uno spostato violento sostanzialmente irrecuperabile, ma dotato di una sorta di affascinante umanità, di quella lucidità di chi sa perfettamente di compiere il male, sa giudicarlo in quanto tale, ma non può fare a meno di compierlo. Un uomo che va all'inferno ma ci va con una sorta di crudo onore, dovuto proprio alla consapevolezza inconscia di meritare la punizione. Per un ruolo del genere Sean Penn può unire una preparazione e un talento d'attore insoliti ad una naturale predisposizione alla violenza, per non parlare di una fisionomia da ragazzo selvaggio e affascinante che di certo ha contribuito: le condanne per rissa e ubriachezza molesta, le modaiole e dissennate love story gli hanno procurato un appeal mediatico che ha saputo sfruttare al meglio in termini di potere e rispetto artistico. Nonostante la sua immagine pubblica si sia relativamente pacificata negli ultimi anni (la sempre maggiore attività politica in campo democratico ne è una conferma), le sue ultime uscite pubbliche (la presentazione di Into the Wild a Roma, con il regista ubriaco fradicio, congestionato e bofonchiante, nonché le ultime indiscrezioni erotiche) continuano a mostrare un personaggio poco raccomandabile, brutale, chiassoso, uno che crea grossi problemi: più o meno come uno dei suoi personaggi, o il protagonista di uno dei suoi film. Detto questo, è ovvio che la vita personale di un attore non ha niente a che vedere con il cinema. E probabilmente è vero anche per Sean Penn, e occorrerebbe guardare agli esiti della sua recitazione, e delle sue regie, piuttosto che alle sue beghe legali e ai suoi exploit etilici: eppure il regista californiano sembra in grado di evitare sia la realtà del maledettismo da tabloid ad uso di adolescenti in cerca di ribelli da idolatrare, sia il cliché dell’attore incapace di scindere le sue azioni dai ruoli che interpreta. La sua foga vitalistica e violenta, quanto il dubbio gusto degli atteggiamenti, appaiono sinceri, non irritano, portando anzi un elemento di indiscutibile genuinità anche in ruoli apparentemente condannati allo stereotipo del bad guy. Sean Penn è l’erede dei geniali sbandati della beat generation e degli anni '60, del loro strambo cinismo idealista, delle loro scelte folli, del loro disinteresse riguardo a tutto ciò che non è esperienza vitale. Radicato nel classicismo di una cultura pragmaticamente sognatrice, Penn racconta come attore, e soprattutto come regista, le storie esemplari di una mentalità innamorata della vita anche nelle sue contraddizioni oscure e sanguinose, legata alla terra e innamorata dell'orizzonte.

ImageLa scelta del materiale narrativo, quasi mai originale, deriva da questa impostazione: Lupo solitario ha per soggetto una canzone di Bruce Springsteen, cantautore simbolo della società statunitense di provincia, di cui riunisce pregi e difetti. E il film segue fedelmente il brano nei contenuti e nel tono, un tono da cantastorie, da narratore orale che mette in scena una storia esemplare e ambigua nello stesso tempo, nella tradizione dei grandi outsider della cultura americana: “My name's Joe Roberts/I work for the state/I'm a sergeant out of Perrineville barracks number 8/I always done an honest job as honest as I could/I got a brother named Frankie, and Frankie ain't no good...”. Già all'esordio come regista, Penn mette bene in chiaro la sua visione dell'autorialità: non una forma di espressione artistica, ma un raccontare storie, nessuna innovazione, ma l'interpretazione passionale ed emotiva di vicende in qualche modo utili, esemplari, per quanto non nell'accezione tradizionalmente codificata della storia edificante. Le sue narrazioni sono anzi controedificanti, girate dal punto di vista dell'outsider del sistema, mai accomodanti: sul solco di tutta una tradizione cantautorale (la musica, soprattutto quella di matrice roots e folk, è sempre stata il veicolo privilegiato di questo genere di storie), sulla scia di personaggi come Bob Dylan, Springsteen, e non dissimilmente dalle cupe trame cantate, in differenti culture, da un Nick Cave e De Andrè. Sean Penn racconta di esseri umani appartenenti ad un mondo semplice che si scontrano con immensi temi etici: hanno a che fare con il male annidato in loro stessi (Lupo solitario), si trovano a gareggiare con il caso (La promessa), devono fare i conti, sulla propria pelle e sempre molto concretamente, con la libertà (Into the Wild). Penn tratta questi temi con una passione smisurata che non teme la retorica, una passione emotivamente carica, ingenua, ma anche insolitamente sincera, evitando di incappare in didascalismi e manicheismi, mantenendo una decisa ambivalenza dei concetti morali, sempre subordinati all'umanità dei personaggi: ama la follia dei suoi protagonisti, pur comprendendone gli errori, indaga le motivazioni non piattamente aneddotiche che portano gli esseri umani all'errore, e queste motivazioni non spingono alla condivisione, ma sicuramente all'empatia. Il Viggo Mortensen di Lupo solitario è un violento egoista incapace di non compiere il male, che continua per tutto il film a fare la scelta sbagliata nel peggior momento possibile. E nello stesso modo il Jack Nicholson de La promessa è un vecchio mitomane in grado di mandare all'aria la propria vita tradendo qualsiasi patto affettivo pur di mantenere una promessa in fondo immotivata. Sono personaggi destinati alla sconfitta, e la logica del maledettismo ad uso di adolescenti in cerca di idoli imporrebbe una loro santificazione agiografica facendone eroi perdenti ma senza macchia, condannati al male solo in quanto la loro alterità rispetto al mondo normale li rende inadatti alla vita. Penn mostra invece i loro lati grotteschi, ridicoli, sgradevoli: lo fa in La promessa mostrando come un impegno etico possa portare alla più laida e vischiosa omissione dell’etica, in Lupo solitario con la perniciosa ripetitività delle malefatte di Frank, incapace di imboccare la retta via anche quando questa è ovvia e comoda, in Into the Wild evitando con cura di nascondere tutte le debolezze e le stupidità di un ragazzino, Chris MacCandless, che osò compiere un gesto immenso, ma nello stesso tempo continuò a commettere errori su errori, a dimostrarsi umano. Il regista di Santa Monica punta l'occhio sulle sue molte ingenuità, sulle sue scelte meno calibrate (di fatto, MacCandless morì spacciando per caso una sua drammatica svista: bloccato da un fiume in piena in Alaska, tornò indietro disperato senza provare a cercare guadi, che pure erano presenti a poche centinaia di metri). L'atteggiamento di Sean Penn nei confronti degli esseri mani è complesso: se da una parte la sua emotività lo obbliga ad innalzare le figure che ha scelto come protagonisti, dall'altra la sua intelligenza gli impedisce di farne delle immagini sacre e intoccabili.

ImageL'ambiguità e la polivalenza dell'atteggiamento di Sean Penn nei confronti della materia trattata si riflette nella stessa struttura narrativa. In Into the Wild non c'è un solo punto di vista, ma tre: il regista, la sorella di McCandless, che narra, immaginando, una storia che non può conoscere, ed Eddie Vedder, cantante dei Pearl Jam e narratore per canzoni all'interno del film. Penn divide i ruoli: Vedder è un cantastorie che punta nei testi alla creazione di un ennesimo mito americano, offrendo intermezzi semplificati, agiografici, su Chris McCandless. Allo stesso modo, la voce fuori campo della sorella di MacCandless è improntata ad una sorta di ribellismo da poltrona, pacificante nella sua semplice esaltazione e nelle sue tenere preoccupazioni. In questo modo, delegando l'aspetto mitizzante ad altri, il regista californiano è riuscito ad allontanare da sé la tentazione di fare un film su Alex Supertramp, l'alter ego adolescenzialmente epico che MacCandless si costruì durante il viaggio. Non crede mai alla trasformazione del personaggio reale in quello mitico, continuando ad analizzare sempre e solo Chris McCandless: un ragazzino coraggioso con la testa piena di libri che si getta in un mondo feroce senza avere chiara la percezione dei propri limiti. Vedder, invece, parla per voce di Supertramp, e i suoi testi sono fatalmente banali e semplificatori, ma fanno bene al cuore, perché non sono il baricentro del film ma solamente un suo aspetto di contorno, e proprio perché hanno una credibile dose di sincerità. Into the Wild finisce con l'essere un film a più strati e a più temi, che è contemporaneamente esaltazione della libertà più sfrenata intesa come autoanalisi e raggiungimento della saggezza, e nel contempo uno sguardo sui limiti di questa libertà, attraverso la figura di un giovane che finisce per trovare una morte non cercata e priva di quell'eroismo che di solito tramandano storie del genere. È un procedimento di complessità che Sean Penn usa da sempre come attore, giocando su un doppio binario espressivo intorno al carattere del personaggio, e che come regista aveva già sperimentato in Lupo solitario, dove la wilderness di Frank era resa nel suo aspetto nichilista e spaventoso attraverso la visione (comunque affascinata) del fratello, e in quello più libero ed esaltante nello sguardo, mai esplicito nel film, dello stesso Frank. Quello di Penn è un procedimento espressivo semplice, ma in grado, con il suo basilare relativismo etico, di rivitalizzare anche temi a forte rischio di retorica: si guardi, in un generale contesto di fallimenti registici, il suo apporto a 11'09''01, dove l'incontro fra due aberrazioni - una personale e l'altra storica - finisce col corrodere il confine fra la perdita e la consapevolezza. Il regista californiano ha il coraggio quasi oltraggioso di narrare la caduta delle torri gemelle come un momento di maturazione e di poesia, con tanto di elementi simbolici triti e ritriti che assumono una loro valenza proprio dalla semplicità (e dalla sincerità) con cui sono stati contestualizzati.

ImageIl poeticismo di Sean Penn è disperato, caldo, sempre a rischio del ridicolo e del ridondante, è retorico ed esagerato ben oltre il manierismo. Le sue marche stilistiche si affidano alla più prepotente ricerca del pathos: lunghissimi segmenti in slow-motion, ampi e dispendiosi movimenti di macchina, possibilmente in campo aperto, dissolvenze incrociate (sempre in slow-motion) su paesaggi americani e particolari simbolici, rapide perdite di controllo della forma e altrettanto rapidi ritorni ai ranghi della classicità. Questa ossessione per il paesaggio e per la manipolazione del tempo dell'inquadratura è una delle chiavi per entrare nel suo universo poetico. Regista cantastorie americano, Sean Penn fonda la sua filosofia sugli spazi del suo paese, ne racconta la libertà ed esorcizza la paura delle sue deformazioni e dei suoi rischi: una visione complessa ma in fondo ottimista, convinta che il lato oscuro faccia parte di noi, e contribuisca alle nostre maturazioni. Risulta evidente confrontando Into the Wild con un film che dell'epopea americana è invece una sorta di requiem: Grizzly Man di Werner Herzog. La struttura delle due pellicole è grossomodo identica: a disagio nella società, il personaggio si immerge nella natura, sfidandola, e ne viene distrutto. Herzog e Penn concordano inoltre su un fatto: questa sconfitta è utile, è bella, è necessaria, in altre parole è una sorta di vittoria morale. La differenza sta nel processo di maturazione del personaggio e nel genere di sfida. In Herzog la maturazione e l'ascensione sono precedenti alla scelta di affrontare la ferocia della natura, e il personaggio compie questa scelta consapevole in qualche modo della sua impossibilità. In Penn l'abbandono della civiltà è solo l'inizio della maturazione. Che questa maturazione, una volta raggiunta, porti inevitabilmente alla morte fa parte del ciclo naturale delle cose: il film è strutturato non a caso sulle tappe esistenziali dell'individuo, e l'ultimo, corrispondente alla morte, è dedicato al raggiungimento della saggezza. Se la stessa sfida costituisce per Herzog una vera e propria guerra ad una natura che non può mai esser empatica pur rimanendo sublime, in Penn lo scopo è proprio questa identificazione con la natura. Dove Herzog è tragico e mistico, di un misticismo prettamente medievale, Penn è umanistico: crede che l'empatia sia possibile, nonostante la difficoltà e i rischi che essa comporta.

ImageLa morte di Chris (esattamente come la follia di Jerry ne La promessa) avviene per caso e per sua personale stupidità: in Herzog era la volontà stessa della natura a determinare l'annientamento del personaggio. Il cinema di Sean Penn crede in una wilderness che è nonostante tutto positiva, comunque piegata alla volontà dei personaggi. Mentre lo sguardo europeo di Herzog è gelido e razionalmente consapevole dell'abominio dell'universo, quello di Penn, passionale e un po' adolescenziale, ma eccezionale nella sua vitalità, è il classico figlio della filosofia americana per cui nulla, nemmeno la morte, rende inutile l'esistenza di chi ha il coraggio di affrontare la vita: non è così per il personaggio di Mortensen in Lupo solitario, né per Chris McCandless. Regista di film esaltanti presi singolarmente, ma destinati a non entrare mai come corpus nella storia del cinema, Sean Penn sembra del resto non curarsene. Il suo è un cinema che prima sogna, poi agisce e solo infine razionalizza, e andrebbe  visto in un modo simile: con l'esaltazione dell'avventura e della libertà, magicamente inconsapevoli del rischio che si corre, ma preparati ad affrontarlo.

 


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