Sam Peckinpah: la rivolta dei perdenti PDF 
di Tommaso Caroni   

È difficile trovare un regista che assomigli di più ai personaggi dei suoi film. Sam Peckinpah è un ultimo buscadero, un cane di paglia, uno che se fosse vissuto nel secolo scorso avrebbe fatto parte di un mucchio selvaggio. Un regista fuori dalla norma, ai margini del sistema e ai margini della vita, assaporata come un bicchiere di mescal bevuto tutto d'un fiato, ma lasciato dolcemente scendere in gola per gustarne il cuore amaro e intenso. Peckinpah è l'America che l'America non vuole mai mostrare, quella che unisce al buono dei film di Hawks le grida di rivolta dei post-modernisti. È l'America vera, fatta di follia ripresa al ralenti ed eroi disperati, troppo vecchi per adattarsi al progresso che materialmente li abbatte. Peckinpah è L'America che non si vede, quella nascosta dietro il perbenismo, che però nessuno potrà mai cancellare. Tutto il suo cinema, dal primo film La morte cavalca a Rio Bravo (1961) sino all'ultimo Osterman Weekend (1983), è pervaso da un grande pessimismo di fondo, che vede i protagonisti fuggire lontano dalla società disgregatrice per recuperare nella solitudine la consapevolezza del proprio essere. I suoi eroi vogliono andarsene lasciando il segno, riprendendosi la dignità usurata dal tempo, esattamente come ha fatto lui, stroncato da un infarto solo dopo una lunga e sofferta disintossicazione dall'alcol e dal successo. Il mito di Peckinpah nasce nel momento in cui tramonta quello del maestro incontrastato del western, Jonh Ford, che con L'uomo che uccise Liberty Valance (1961) ha portato a compimento uno degli ultimi grandi capolavori del classicismo americano. Proprio il passaggio di consegne tra questi due "mostri sacri" rappresenta un buon punto di partenza per cominciare un discorso teorico sul cinema del più grande ribelle del panorama americano.

Quando si parla di rinascita del western - avvenuta circa a metà degli anni '60 - si fa riferimento ad un'importante costola del New American Cinema, corrente che, grazie a giovani registi come Hopper e Pollack, si era posta in senso critico nei confronti di istituzioni che avevano perso la loro credibilità davanti agli occhi del cittadino medio, rimettendo in discussione tutte quelle certezze che proprio il cinema degli anni d'oro aveva propagandato ed esaltato. Grazie alle opere di Brooks (I professionisti, 1966), George Roy Hill (Butch Cassidy, 1969), Polonsky (Ucciderò Willie Kid, 1969) e soprattutto Peckinpah, il genere per antonomasia del classicismo americano ha vissuto una rinascita clamorosa, caratterizzata da un approccio visivo e tematico a più ampio respiro e destinato a condizionare pesantemente i cineasti contemporanei. Basti pensare all'influenza che opere come Gangster's story di Penn (1967) e Il Mucchio selvaggio dello stesso Peckinpah (1969) hanno avuto sulla violenza tarantiniana de Le iene (1992) e stoniana di Assassini nati (1994), per vedere quanto questo periodo abbia rivestito un'importanza particolare nell'evoluzione del cinema moderno.

I '60 per il western sono considerati anche gli anni di Leone, che per gran parte degli addetti ai lavori è riuscito più di tutti ad imporre un nuovo stilema registico, mutando i canonici tempi narrativi - più rarefatti grazie alle musiche di Morricone - e costruendo nuove icone come quella del "cavaliere solitario". Insieme a Leone è stato proprio Peckinpah a portare avanti con maggior convinzione la rinascita del west e sui due, tra l'altro, la critica si è spesso divisa su chi fosse arrivato prima a questa nuova visione. Le date tuttavia sembrano dare più ragione a Peckinpah, che con Sierra Charriba (1965) aveva già posto le basi per la costruzione di quella "pretensione" diventata celebre poi, ad esempio, nel Buono, brutto e cattivo (1966) di Leone. Certamente per entrambi i cineasti ha rivestito una grande importanza la lezione di Akira Kurosawa. Leone ne ha scomposto le tematiche rimodellandole nel west, Peckinpah lo ha omaggiato in maniera più sottile nell'ultima parte de Il Mucchio selvaggio dove viene ripreso il finale de I sette samurai. Insieme al regista nipponico le influenze che hanno condizionato questa nuova ristrutturazione del genere vanno ricercate in alcuni autori della Nouvelle Vague, soprattutto nei film di Alain Resnais, che alla fine degli anni '50 aveva mostrato come fosse possibile capovolgere regole stilistiche sacre aprendo nuovi orizzonti cinematografici.

Il western di Peckinpah, sin da Sfida nell'Alta Sierra (1962), ha proposto nuovi aspetti e sfumature, pur mantenendo quelle caratterizzazioni tipiche della tradizione classica. Il genere con lui non è più inteso come saga della baldanza e del trionfo, ma come testimonianza di una fine e come crepuscolarità di una condanna storica e umana. Sempre più spesso le vicende si svolgono in Messico, mostrato come scenario alternativo alle Monument Valley di Ford, un luogo infernale naufragato in un mare di whisky e dominato da prostitute che esaltano l'immagine di "dirty western" attribuita spesso alle opere del regista. Ai John Wayne e James Stewart si sostituiscono i Warenn Oates ed Ernest Borgnine, caricaturali nelle loro facce livide, consumate da un'esistenza sempre in bilico tra la vita e la morte. Il west di Peckinpah vuole presentare un'America diversa, fatta di sofferenza e fatica più che di panorami incontaminati. Nei suoi film si spara e si ammazza più per paura e istinto di sopravvivenza che per gloria e buoni valori. Non è un caso che un sinonimo di cow-boy in Texas e Messico sia desperados. Non si parla più di OK Corral o di transumanza di mandrie, e scompare il banditismo "d'onore" per lasciare spazio alla crudezza lancinante dell'azione fondata sulla violenza. Le vendette nascono non più solo da cause reali ma anche da un forte desiderio di riscossa interna. La rivolta verso un potere politico (i prussiani ne Il Mucchio selvaggio) e verso una nuova generazione di cow-boy più forti e giovani (Bowen e Taggart in La ballata di Cable Hogue) sono esempi pratici dell'ideologia proposta da Peckinpah. La lotta contro i soprusi ed i potenti è lo specchio di quello che il regista vede nella società americana governata da Nixon, caratterizzata dagli scontri sociali nelle università e dalla guerra in Vietnam.

Tutti i protagonisti del cinema di Peckinpah, d'altronde, sono dei perdenti, degli emarginati dispersi in una vita senza speranza e senza illusioni. Non vanno alla ricerca di un destino glorioso, le loro sono avventure semplici perché disinteressate, messe loro davanti come un ostacolo da superare, ma non come un mezzo per cambiare il proprio destino. La maggior parte dei personaggi di Peckinpah è rappresentata da vagabondi alcolizzati, per i quali il regista nutre un affetto e un interesse di molto superiori a quelli provati per sceriffi o soldati. Basti pensare, a tal proposito, alla caratterizzazione degli uomini di legge protagonisti delle pellicole del regista americano, tutti fortemente attratti da uno spirito autolesionistico e lacerati dal dubbio sul dove risieda il giusto. Pat Garrett, per esempio, protagonista del film Pat Garrett e Billy the Kid (1973), passa dalla parte della legge solo per interesse, assoldato da ricchi proprietari terrieri per uccidere Billy Kid, al quale in realtà è ancora legato da una forte amicizia. Nel finale del film, infatti, dopo aver ucciso il rivale, Pat spara contro lo specchio che ritrae la sua immagine di carnefice disperato, vivo solo materialmente, ma morto insieme a Billy nel suo gesto guidato dalla mano del potere. In Sierra Charriba il Maggiore Dundee, interpretato magistralmente da Charlton Heston, è anch'egli un personaggio tragico, travolto da un lacerante istinto di morte, un eroe diviso tra la sua anima fiera di soldato e quella di reietto che agisce solo per sete di distruzione.

Ciò che caratterizza questo nuovo genere di antieroe è l'età. Gli attempati protagonisti di Sam Peckinpah, infatti, non vengono mostrati come eroi "classici", hanno l'aspetto di cow-boy stanchi, visti non nel fulgore della loro energia, ma dopo, quando nel west la legge è ormai stabilita. Scapoli e senza lavoro, si ritrovano vecchi stanchi, ma ancora in grado di tener testa ai ricordi e di morire sulla breccia.(1) Questi personaggi vivono profondamente la nostalgia del tempo passato e faticano ad accettare il cambiamento generazionale dovuto al progresso. Junior Bonner (Steve McQuenn), protagonista del western moderno L'ultimo buscadero (1972), porta con sé questa visione nostalgica con grande espressività e fierezza: un uomo d'altri tempi, legato a valori come il coraggio e l'orgoglio, ora invece costretto a sottostare alle nuove leggi che regolano il mondo. Ad una impresa edilizia con il fratello, Junior preferisce il vagabondaggio con il suo cavallo, inseguendo rodei e tori selvaggi da affrontare (tematica ripresa con sfumature diverse da Pollack ne Il cavaliere elettrico, 1979). Il buscadero di McQueen rappresenta, invece, un tipo speciale di antieroe del cinema di Peckinpah, quello mostrato nell'atto di "cadere", un'azione legata al (de)cadere dall'antica grandezza, ma anche intesa in senso fisico. Junior Bonner vive e sopravvive cadendo dai tori che lo sbalzano dalla sella durante gli otto secondi che caratterizzano la sfida nel rodeo. Come lui tanti altri personaggi di Peckinpah subiscono "cadute": lo sceriffo Steve Judd, in Sfida nell'Alta sierra, rischia di finire travolto da un'auto che sfreccia nella main street; il Maggiore Dundee, in Sierra Charriba, è colpito ad una gamba da una freccia che lo ridurrà all'inattività; in Getaway! (1972) McCoy viene sbalzato maldestramente dall'automobile guidata dalla moglie; Billy Kid viene invece disarcionato dal cavallo in mezzo alla folla di cittadini inerti mentre si appresta ad uscire da Lincoln.(2)

Tutti questi personaggi, che trovano solo nel ricordo nostalgico di un'esistenza ormai perduta uno stimolo ad andare avanti, vivono ardentemente l'ennesima variante di quella amicizia virile vissuta tra i boschi che permea tutta la tradizione narrativa americana. Il rapporto tra Skyles e Thorton e quello tra Bishop e Dutch ne Il mucchio selvaggio sono un esempio lampante di una relazione di fratellanza che va oltre i legami familiari, racchiusa in un complice e silente rispetto. Gli amici, come insegna Pat Garrett, vanno onorati in punto di morte, qualsiasi condizione li abbia separati.

Bennie, protagonista di Voglio la testa di Garcia (1974), vive un rapporto emblematico di amicizia con la testa mozzata dal corpo dell'amico Garcia, che lo spingerà, con tacito consenso, a vendicare la morte della sua compagna, vittima innocente degli eventi e della sua stessa natura. Nel cinema contemporaneo la figura della testa mozzata è stata ripresa più volte: da Tim Burton, che ci giocava in maniera sarcastica in Beetlejuice, a Robert Zemeckis, che in Cast Away ne ricava invece un personaggio in grado di mutare i destini del protagonista, diventando tanto convincente nel suo immobilismo quanto lo era stato per Bennie la testa di Garcia.

Ciò che esplode nel cinema di Peckinpah, grazie soprattutto alla figura dell'antieroe, è così una "poetica della violenza", mezzo attraverso il quale il regista costruisce la sorte e il destino dei suoi protagonisti. La violenza è nella natura intrinseca dei suoi personaggi perdenti, i quali, nel deserto messicano o nella caotica società moderna, cercano sempre di mantenere intatto il proprio spirito indipendente. Sin dai primi film, questa tematica è stata proposta con grande veemenza. In Sfida nell'Alta sierra è sviluppata in maniera psicologica mentre in Sierra Charriba le battaglie trovano già una loro natura selvaggia. All'interno della cinematografia del regista americano, tuttavia, il vero e proprio manifesto della violenza rimane Il Mucchio selvaggio. Questo film, vero e proprio simbolo di questa poetica, permette due piani di lettura legati l'una al principio superficiale di estetica, l'altra a quello simbolico di vendetta. L'estetica della violenza nel film risulta feroce, a tratti barocca nella sua complessa sequenza di morti rallentate, a tratti caricaturale per le continue esplosioni di sangue ad ogni colpo d'arma da fuoco inferto al nemico. Non bastano più le scazzottate e il cascatore dall'alto del saloon, ai materassi fuori campo si sostituisce un'annacquata vernice, tanto più fluida e accesa dell'ormai statica, bidimensionale conserva di pomodoro.(3) C'è però anche un secondo piano di lettura della violenza, che la allontana dal valore puramente superficiale - anche se sublime - del virtuosismo registico, quello che riflette sul fine che porta alla sua esplosione. La vendetta, come simbolo del rovesciamento etico del cinema western tradizionale, è la sorgente dalla quale i banditi del mucchio selvaggio trovano la forza per compiere la loro personale carneficina. Anche l'amicizia virile che unisce i desperados - in questo caso per il compagno Angel tenuto prigioniero dagli uomini di Mapache - fa scattare i protagonisti in uno scontro per la sopravvivenza dei deboli sui forti e sui conquistatori stranieri (nel film, ufficiali prussiani con interessi politici nella guerra civile messicana).

Altro manifesto della "poetica della violenza" in Peckinpah è rappresentato dall'avventura europea del regista, intrapresa nel 1971, quando sulla costa della Cornovaglia dirige Cane di paglia. Ad oltre quarant'anni di distanza dalla sua realizzazione, tratto dal noto racconto di Gordon Williams, il film mostra una violenza così cruda da poter competere con film più contemporanei. La tensione, mantenuta elevatissima dal regista per tutta la durata della pellicola, esplode nella sequenza dell'assedio dei paesani alla casa del riflessivo matematico David, impersonato da un Dustin Hoffman mai così ambiguo, sospeso tra razionalità e follia degenerativa. La parabola del protagonista, da animale inoffensivo a combattente feroce, è modellata esattamente sulla teoria dell'aggressività intra-specifica dell'uomo. Il recupero della propria natura umana, intesa come etica tribale della forza, sta alla base della maturazione compiuta dal personaggio nel film, prima umiliato e deriso, poi feroce vendicatore incosciente (David non sa del doppio stupro subito dalla moglie Amy) e ostinato difensore della sua casa. La violenza cresce con la presa di coscienza della propria forza da parte del protagonista, che prima si contiene ferendo ed immobilizzando i nemici, poi arriva ad ucciderli ferocemente, come nel caso del rivale sessuale Charlie, sgozzato con una trappola per lupi. La (falsa) morale, in questo caso, il regista la offre nel finale, quando nella notte nebbiosa il nuovo David allontanandosi dalla casa, alla frase mormoratagli dal ritardato Henry "Non conosco la strada" risponde "Non fa niente…neanche io". La battuta è significativa perché spiega come l'aver preso coscienza della propria natura umana porti a non avere più né obblighi né rassicuranti certezze davanti a sé. L'importante è essersi battuto, l'essersi liberato dall'inganno di un comportamento conformista.(4)

Nel 1974 Peckinpah realizza Voglio la testa di Garcia. Ai tempi il regista stava vivendo una grande crisi esistenziale causata dall'ennesimo divorzio, dai soprusi, in fase di montaggio, della MGM sulla versione definitiva di Pat Garrett e Billy the Kid e da una paranoia maniaco-compulsiva che lo portava ad ipotizzare di essere controllato con delle microspie dalla CIA. In queste condizioni mentali, solo con l'aiuto psicologico e disintossicante della sua fedele segretaria esecutiva, il regista riesce a firmare quello che può essere definito il suo testamento cinematografico.(5)
Certo è probabile che Il Mucchio selvaggio e La ballata di Cable Hogue siano opere nella loro complessa integrità più complete, ma le tematiche trattate, e il modo in cui vengono portate all'eccesso ha reso Voglio la testa di Garcia il simbolo del suo cinema folle e disperato. Il Messico tanto amato, la violenza, l'amore difficile con le donne e l'animo triste e perso dell'antieroe interpretato da Warren Oates risultano più autentici che mai. Sembra quasi che al volante della scassata Chevrolet del protagonista sieda lo stesso Peckinpah, che, rivolgendosi alla testa mozzata del cadavere riposta sul sedile, parli ad un suo alter ego già morto. La perdita di controllo qui è presentata materialmente con la decapitazione del co-protagonista del film, strappato alla vita da quel destino autodistruttivo che caratterizza tutti i personaggi delle sue pellicole. La testa di Garcia, che per tutto il tempo della storia è riposta in un sacchetto di plastica coperta da mosche, vive e agisce all'interno della narrazione come tutti gli altri personaggi. Garcia ha lo stesso animo del protagonista Bennie, è un disperato che mettendo incinta la figlia di un ricco fazendero messicano ha decretato la sua condanna a morte, avvenuta però ancor prima per mani di sconosciuti. Da questo momento Garcia risorge e anche senza corpo - in questa sua coscienza involontaria - accompagna l'amico Bennie verso una morte gloriosa, che come sempre nei film di Peckinpah equivale ad un sanguinoso ultimo ballo, caratterizzato da sete di vendetta e di sangue.

(1) Goffredo Fofi, Capire con il cinema, Feltrinelli, p.13
(2) Umberto Mosca, Sam Peckinpah Il mucchio selvaggio, Universale Lindau, p.78
(3) Franco La Polla, Il nuovo cinema americano 1967-1975, Lindau, p.29
(4) Valerio Caprara, Sam Peckinpah, Il Castoro Cinema, p.102
(5) In seguito Peckinpah realizzerà ancora diversi film, ma solo La croce di ferro (1977) tra questi presenterà le sue tematiche principali. Gli altri, nonostante un discreto riscontro di pubblico, saranno diretti dal regista senza particolari stimoli narrativi e in condizioni di dubbia lucidità a causa della dipendenza dall'alcol e dalla cocaina.

 


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