Alice in Wonderland PDF 
Michele Segala   

Alice è cresciuta ormai. Ha infatti 19 anni quando la vediamo raggiungere in calesse una grande festa, dove un giovane borioso vittoriano è lì, a sua insaputa, per chiederle la mano. Lei vorrebbe rispondergli di no, ma le costrizioni sociali e le richieste di madre, familiari e conoscenti la spingono da un’altra parte. La visione del Bianconiglio che corre tra le siepi della villa di cui è ospite le dà un’ultima apparente via d’uscita: seguire quel coniglio in barba alle attenzioni di tutti, come aveva fatto dieci anni prima, la farà ricadere nuovamente nella buca che conduce al Paese delle Meraviglie. Un Paese ora diverso però. Non solo molti dei suoi abitanti la scherniscono per averlo chiamato così all’epoca (il suo vero nome sarebbe Sottomondo), ma inoltre, negli anni in cui lei è stata assente, la “politica” del Sottomondo pare essersi polarizzata: la Regina Rossa si è fatta spietata (tagliando davvero le teste di chi non le stava bene), e gli abitanti del Sottomondo si sono conseguentemente schierati da una parte (quella della Regina Rossa) o dall’altra della barricata (quella della Regina Bianca). Tutti in attesa della salvatrice, ovvero di quell’Alice che dovrà tornare nel Sottomondo per sconfiggere le forze della malvagia Regina Rossa uccidendo in battaglia il suo campione, il tremendo Jabberwocky.

Quale sia la ragione per cui Tim Burton abbia voluto mettersi all’opera per filmare questo sequel del libro di Lewis Carroll non è chiaro: a suo stesso dire la storia non lo avrebbe mai "preso", in quanto poco strutturata e troppo picaresca. Anche per questo era forse intrigato dall’idea di dare un maggiore spessore psicologico ai personaggi e renderla al contempo più lineare: il che già di per sé è come dire di voler minare alle radici lo spirito del capolavoro di Carroll, che era invece basato sull’idea stessa di una fantasia lasciata libera, immersa in un caleidoscopio fascinoso di incontri improbabili, di filastrocche non-sense e di giochi di parole che potevano significare tutto (Alice poteva aprirsi, epoca dopo epoca, a nuove immaginifiche metafore) o niente. L’idea sola di trattare in tal modo Alice nel Paese delle Meraviglie era quindi peregrina, ma che a farlo sia stata addirittura la stessa penna che in passato si era cimentata perlopiù con lungometraggi animati Disney dei meno riusciti (Il re leone, La bella e la bestia), ovvero la sceneggiatrice Linda Woolverton, era un evidente presagio della catastrofe. Alla fine puntalmente attualizzatasi con questo pastrocchio imbarazzante che, ahinoi, si dà anche il caso sia stato firmato da uno dei più dotati registi americani degli ultimi vent’anni.

Ma quale che fosse l’intenzione originaria del cineasta californiano (forse semplicemente prendere i soldi del contratto per due pellicole con la Disney e scappare col malloppo, oppure sbrigare la questione Alice per poi dedicarsi con maggiore attenzione al remake del suo Frankenweenie, chissà...), il film che comunque porta la sua firma rappresenta forse, e comunque, il punto più basso della sua filmografia tutta, riuscendo persino a battere in alcuni punti lo sciatto (guarda caso un altro remake di un classico) Il pianeta delle scimmie. Perché se pure non ci si volesse soffermare sull’uso/abuso del CGI e del greenscreen digitale utilizzato per l’intera durata del film (l’effetto visivo d’insieme appare grossolano e più vicino all’estetica Disneyworld che a quella postgotica delle creature del Burton migliore), o sul 3D che fa due o tre passi indietro rispetto a quello utilizzato da Cameron per Avatar (che infatti ha apertamente criticato la scelta del regista di Edward mani di forbice di girare tutto con macchine da prese 2D per poi gonfiare il girato in 3D), e quindi volendo mettere da parte tutta la parte più strettamente visiva – che sembra qui appannaggio del pubblico più di bocca buona, quello che oggi abbocca all’esca del 3D e si beve tutte d’un fiato le scintillanti piattezze del digitale –, questo Alice nel Paese delle Meraviglie (dove peraltro tutti i personaggi non fanno che insistere che non è quello il vero nome … e allora cambialo il titolo!) accumula una tale sequela di ingiustizie perpetrate verso lo spirito del libro e del pubblico ad esso fedele che si fatica a farvi ordine, tante sono. A partire dalla struttura narrativa, che ammassa senza grazia rapide sequenze e nuovi, inutili personaggi. O come  il Cappellaio Matto, che ad un certo punto sembra far intendere che ci sia (stato?) qualcosa di tenero tra lui ed Alice. O il Fante di Cuori che ci prova con Alice. O la rapida trasformazione delle due regine in due generali in battaglia e degli altri personaggi in motivatissimi aide-de-camp. O, infine, i goffi tentativi di districarsi tra un pacifismo di facciata (Alice dapprima afferma che lei "non ucciderebbe mai nessuno", mentre la Regina Bianca si ritrae alla sola idea di "uccidere") ed un prosaico se non semplicemente farisaico schema buoni-contro-cattivi che fa presto dimenticare ad Alice le sue velleità umanitarie per indossare tanto di armatura da Giovanna d’Arco e decapitare l’orrendo Jabberwocky. Quale sia la motivazione dietro l’inserimento a forza nella trama di questa crociata contro la malvagia Regina, oltre a far risuonare nelle orecchie del pubblico più giovane ed ingenuo le fanfare militari della Trilogia dell’Anello (e simili blockbuster, magari con giovani maghetti …) o a rendere più verosimile e semplice il passaggio dal medium/film al medium/videogame del format Alice nel Paese delle Meraviglie, proprio non si sa.

A non aiutare Tim Burton c’è anche il fatto che, come ha già dimostrato in passato (con Il pianeta delle scimmie e i due, seppur molto buoni, Batman), le sequenze d’azione non sono proprio il suo forte. Così se Alice abdica presto (dalla seconda parte in poi) al tema preferito del regista americano (la poesia surreale e fantastica) a favore dell’azione epica, l’impressione che si ha è che alla fine persino un Michael Bay qualunque avrebbe potuto dirigere un po’ meglio molte sequenze. Ma in fondo questo è il meno. Perché il peggio non è che Alice sia un film d’azione con brutte sequenze d’azione, o un film per bambini che diverte poco o niente, lo è invece che in questa sua nuova rappresentazione Alice sia diventata l’esatto contrario dell’eroina carrolliana, ovvero una vera e propria paladina del conformismo: il suo (nuovo) viaggio nel Paese delle Meraviglie/Sottomondo è infatti un bildungsroman il cui fine (ben palese nell’imbarazzante epilogo) è raggiungere un compromesso molto borghese tra fantasia (che qui è letta semplicemente come irresponsabilità) e le pesanti responsabilità dell’età età adulta. Come Tim Burton abbia potuto storpiare o permettere che si storpiasse fino a tal punto il senso del libro originale è davvero arduo da immaginare, soprattutto considerando come nelle sue opere migliori (Edward ed Ed Wood su tutte) si sia speso con tutte le sue forze per dare una rappresentazione toccante e creativa del “diverso”. 

TITOLO ORIGINALE: Alice in Wonderland; REGIA: Tim Burton; SCENEGGIATURA: Linda Woolverton; FOTOGRAFIA: Dariusz Wolski; MONTAGGIO: Chris Lebenzon; MUSICA: Danny Elfman; PRODUZIONE: USA; ANNO: 2010; DURATA: 108 min.

 


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