Non è colpa tua! Gus Van Sant e i suoi dannati PDF 
Enrico Maria Artale   
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Non è colpa tua! Gus Van Sant e i suoi dannati
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ImagePrima di capire come tutto questo si articoli nella recente filmografia del regista vale la pena sviluppare un’altra considerazione, che Psycho mette in luce grazie alla sua appartenenza al genere thriller. Tra tutti i personaggi vansantiani Bates non è né l’unico né il primo a commettere un omicidio: prima di lui vi era stato Jimmy, in Da morire, e dopo ve ne saranno degli altri. In tutti i casi la responsabilità individuale è più o meno parziale, l’iniziativa omicida più o meno ambigua: Jimmy uccide perché sedotto e plagiato da Mrs. Maretto, ma non si possono escludere altre ragioni sotterranee; Bates uccide identificandosi nella madre, ma il suo grado di consapevolezza resta ingiudicabile per lo spettatore, anche sulla base del fatto che la madre stessa è stata una sua vittima. Nei film successivi vi saranno i ragazzini killer di Elephant, la cui ferocia non è giustificabile ma è interpretabile in moltissimi modi, senza che nessuno di questi possa essere la chiave per capire chi o cosa sia alla radice dell’accaduto; prima di loro, in Gerry, capolavoro inedito in Italia, uno dei due protagonisti uccide il compagno, ma il suo gesto folle sembra dettato dall’atmosfera di morte che pervade l’ambiente in cui i due vagano ormai da giorni, per l’appunto, la Valle della Morte in California. Infine, vi è il protagonista di Paranoid Park, omicida involontario, vittima del caso, del gesto, dell’istante. L’ambiguità di questi delitti obbliga però ad allargare lo sguardo agli altri film, per comprendere subito quanto a Van Sant non interessi tanto l’assassinio in sé, in quanto azione rivolta contro il prossimo, ma il rapporto fondativo con la morte. In tutti i film i giovani protagonisti entrano a stretto contatto con la morte: la morte di Pedro in Mala Noche, quella di Nadine in Drugstore Cowboy, di Bob in Belli e dannati, di Bonanza in Cowgirl, di Larry Maretto in Da morire, molto indirettamente della moglie dello psicologo in Will Hunting, e ovviamente i casi citati di Psycho, Gerry, Elephant, e Paranoid Park, passando per la morte (suicidio?) di Blake/Kurt Cobain in Last Days. Si vede subito come la definizione spuria di “trilogia della morte” (per i tre film prima dell’ultimo) appare alquanto superflua, visto e considerato che la relazione con la morte sembra essere il tema centrale del cinema di Van Sant, quasi fosse un’ossessione. Il senso di onnipresenza della morte non può essere ridotto con formule sapienziali, come a dire che la morte fa parte della vita; esso esprime invece qualcosa di molto profondo e preciso, uno di quei nodi concettuali che fanno di Gus Van Sant uno degli autori più importanti degli ultimi vent’anni, immensamente al di sopra delle accuse di formalismo e vuotezza mosse da certo pubblico e certa critica, sprovveduto il primo, ignorante la seconda. Van Sant ha compreso fino in fondo la relazione in qualche modo peculiare e privilegiata che l’adolescente, o il giovane, in senso più ampio, intrattiene con la morte. Qualcosa di assolutamente diverso dal rapporto riflessivo e turbato che può appartenere ad un quarantenne (nel luogo comune: “un giorno ti alzi la mattina e capisci che…”), o da quello sereno o angosciato che caratterizza lo stato di prossimità con la morte in una persona anziana. La relazione giovanile con la morte è qualcosa di istintivo, in essa si condensano la tensione distruttiva e autodistruttiva spinta al suo apice, la curiosità, il coraggio, a volte l’irresponsabilità o il nichilismo, e soprattutto il contatto esclusivo con la forma più tragica e inquietante della morte, ossia la morte violenta, che è, salvo eccezioni, l’unica che colpisce i giovani. Tutte le scene di morte, nei film citati, presentano la morte violenta, nelle più diverse concretizzazioni. Overdose, omicidio, suicidio, incidente. Malgrado questo campionario il cinema di Van Sant non ha niente di macabro, di lugubre o funereo, non è neanche particolarmente violento. La violenza e la tragedia sono calate nell’elemento giovanile, nella vitalità, nel colore, nella musica, o anche nel tipico rovesciamento di tutto ciò (ad esempio in Last Days). Egli vuole mostrare la peculiarità assoluta e la potenza rivelatrice della gioventù sulla base dell’irripetibile esperienza di morte che si ha in quel periodo della vita. Per farlo ha scelto o costruito storie in cui la morte si concretizza, ma ciò non vuol dire che queste siano storie particolari, fuori dall’ordinario. O meglio: mettendo in scena anche storie fuori dall’ordinario egli riflette, con rara perseveranza, sulla relazione con la morte che caratterizza qualsiasi ragazzo, anche chi non è mai entrato in contatto reale con essa. Ognuno dei suoi film si muove in questo senso su livelli molteplici, uno dei quali è quasi metaforico.

ImageSono quindi queste le determinazioni fondamentali dell’adolescenza secondo Gus Van Sant: la ribellione, la dannazione, la relazione con la morte. Abbiamo osservato come, in relazione ad alcuni cambiamenti storici e generazionali, il regista abbia spostato il suo obiettivo dagli spiriti maledetti a personaggi meno estremi, che vivono in contesti più vicini alla normalità. Resta da capire come avviene l’ultima e più radicale trasformazione del cinema dell’autore, che coinvolgerà in modo profondo sia il piano formale che la riflessione espressa in esso, anche in questo caso sulla base di differenti scelte produttive da un lato, di eventi e trasformazioni storiche rilevanti dall’altro. Due anni dopo Scoprendo Forrester, che è il film più costoso mai realizzato da Van Sant, il cineasta firma quello che resta, fino ad ora, il suo film più radicale e minimalista, Gerry (c’è da lasciarsi andare alle risate, o al pianto, immaginandosi la faccia di qualche distributore italiano mentre visionava il film e pensava, nel migliore dei casi: no, per noi questo è troppo!). Difficile imbattersi, nel cinema mondiale di oggi e non solo, in una rivoluzione del genere. Il regista abbandona Hollywood e recupera i suoi studi d’avanguardia, collabora con un nuovo, straordinario direttore della fotografia, e si concentra sulla scelta degli interpreti e della location; la storia è pressoché inesistente, ma è necessario illustrarla brevemente: due giovani ragazzi giungono in auto alle soglie della Valle della Morte; di loro non sappiamo nulla, né chi sono, né perché sono lì. Entrambi si chiamano Gerry, ma la stessa parola viene usata per indicare cose o azioni molto diverse tra loro. Inizialmente il loro girovagare nel deserto sembra avere un senso, come stessero cercando qualcosa, ma questo senso molto flebile si dissolve presto nel nulla. I due sembrano essersi smarriti. Il deserto inizia inesorabilmente a piegare le loro resistenze, il tempo trascorre incalcolabile. Senza forze, entrambi sono ormai sdraiati a terra. Senza alcun motivo uno dei due si sporge sull’altro e dopo una stanca colluttazione lo uccide. Riprende a camminare. Dopo poco si accorge di essere vicino alla strada; la prima vettura che passa gli dà un passaggio. Gerry è una delle esperienze più significative offerte dal cinema contemporaneo; girato con uno stile folgorante che predilige lunghissimi piani sequenza (Van Sant dichiara di essersi ispirato a Tarr e alla Ackerman), scarsa profondità di campo e camera a mano, questo film è in grado elaborare un poema visivo e concettuale a partire unicamente dalla fisicità del materiale umano e naturale. Per raggiungere tale scopo il regista  radicalizza la sua disposizione ricettiva, il suo affidarsi alla passività della cinepresa, lasciando che sia l’ambiente a costruire progressivamente il senso e l’atmosfera del film. Anche in questo caso il tema centrale è la relazione dei giovani con la morte, non soltanto nell’assassinio che conclude il film, quanto soprattutto nel rapporto con l’ostilità del luogo. La scelta musicale è il frutto di una sensibilità artistica straordinaria: vengono utilizzate due composizioni di Arvo Part, famose nell’ambito della musica contemporanea per essere una sorta di manifesto del “minimalismo sacro”. Anche la costruzione sperimentale della colonna sonora fa parte di questa radicale ricerca formale che ritornerà puntualmente nei film successivi, divenendo una sorta di marchio di fabbrica di Van Sant, uno dei pochi registi attuali riconoscibile anche da una sola inquadratura. Dunque anche Gerry non tradisce le tematiche care al suo autore: i due personaggi sono dei ribelli, perché intraprendere un viaggio del genere senza attrezzatura, anzi ridendo di chi si munisce di ogni tipo di attrezzatura, costituisce una forma particolare di rifiuto delle consuetudini e della società; ma sono anche dei colpevoli. Sempre più durante il loro viaggio si ha la sensazione che entrambi siano lì per espiare qualcosa, mentre il loro procedere somiglia al movimento dei dannati dell’inferno. Eppure sono completamente diversi da qualsiasi ragazzo ritratto da Van Sant non solo nei primi film, ma anche in quelli immediatamente precedenti; è possibile comprendere cosa ciò possa significare soltanto prendendo in considerazione Elephant, con cui Gerry intrattiene una relazione strettissima.

ImageIn Elephant, come in Paranoid Park, l’interesse del regista per gli adolescenti, dei liceali in questo caso, diventa volutamente esclusivo: il mondo degli adulti è assente o quasi, appena suggerito dalla comparsa di alcune figure di riferimento. Al tempo stesso però il film è un lavoro corale in cui non vi è un solo protagonista, ma un gruppo di personaggi principali variamente significativi; il fatto di cronaca alla base della trama ha probabilmente suggerito a Van Sant un taglio meno individuale e più sociologico, per quanto alla fine il film sia ben lontano dall’essere un saggio di sociologia, un’opera a tesi. Il primo ad apparire sullo schermo è John, esempio di un ragazzo costretto ad un carico di responsabilità eccessivo nei confronti di sé stesso e del padre alcolizzato, ma non per questo incapace di gestire al meglio le difficoltà che gli si presentano; sarà sostanzialmente l’unico ad avere una reazione etica, per quanto semplice, alla strage, avvertendo chiunque del pericolo nascosto nella scuola. Poi vi sono una serie di altre figure che l’autore tratteggia con grande umanità: sono ragazzi normali, impegnati in attività scolastiche assolutamente normali, quotidiane; alcuni risultano più simpatici, altri meno, anche in relazione all’ironia che a volte riempie lo sguardo del regista. Infine compaiono Eric e Alex, i due killer; da quel momento saranno loro le figure centrali, nonostante la coralità che sostiene fino alla fine la narrazione. Non è un caso che questi due personaggi siano gli unici, in Elephant, a poter essere assimilati alle grandi figure del cinema di Van Sant. Innanzitutto sono una coppia: fin dall’inizio, infatti, l’amicizia virile, con sfumature di amore omosessuale più o meno esplicite e profonde, è un tema ricorrente. Da Mala Noche a Belli e dannati, ma anche in Da morire, Will Hunting, e, ovviamente, Gerry, i ragazzi stringono sempre legami molto forti con un amico, formando una coppia indivisibile in cui prima o poi esploderanno i conflitti. Eric e Alex si inseriscono in questo filone fondamentale, ma qui ad esplodere, letteralmente, saranno i colpi d’arma da fuoco. Alcuni minuti prima il bacio sotto la doccia aveva indicato dolcemente il fondamento del loro sodalizio violento. Senza dubbio sono dei ribelli; tuttavia sembra essersi modificata radicalmente, rispetto a personaggi come Bob di Drugstore Cowboy, o Will Hunting, la forma della ribellione: è una ribellione folle e quietamente disperata, che non punta il dito contro l’autorità, ma contro i propri simili e, in definitiva, contro sé stessi. Non è tanto la violenza a diversificarla, ma l’insensatezza, almeno apparente, e l’autodistruttività estrema. Certo attraverso il delirante sterminio dei propri compagni Eric e Alex mettono in discussione il sistema stesso, e per quanto il loro unico scopo dichiarato sembra essere il divertimento, è evidente come ciò nasconda da una parte una frustrazione per essere in ogni caso degli isolati, degli emarginati all’interno del contesto scolastico (nessuno dei due sembra avere amici, anzi vediamo Eric deriso da alcuni compagni); dall’altra il rifiuto unilaterale della realtà e della società. È significativo a tal proposito che qui la società non sia più quella dei bassifondi e della povertà in cui avevamo visto muoversi i protagonisti degli altri film. Eric e Alex provengono chiaramente da famiglie normalmente agiate, benestanti, e vivono in una società mediamente tranquilla, piuttosto evoluta e liberale (lo si evince dalle consuetudini familiari e scolastiche). Ma il loro rifiuto non è privo di ragioni profonde; l’estrema asciuttezza del film obbliga a sviluppare cautamente alcuni discorsi, che sono in parte il frutto di una nostra interpretazione, possibile come tante altre. Il sentimento di colpevolezza dei ragazzi vansantiani è presente anche nei killer di Elephant, in cui raggiunge forse il massimo grado di tragicità, in senso metafisico ed esistenziale: si tratta della coscienza di essere a “fondamento di una nullità”, usando un’espressione di Heidegger. Questo sentimento del vuoto è solo in parte il prodotto di una società del benessere in cui ogni cosa sembra perdere un valore intrinseco, perché per altro verso è qualcosa che condividono tutti gli uomini, in ogni società. La colpa di cui i killer credono di potersi fare carico è una colpa universale, che ai loro occhi richiede un sacrificio totale, un’espiazione violenta in seno alla comunità. Non si può dire che percepiscano qualcosa di ignoto per gli altri, ma a questa percezione Eric e Alex oppongono un rifiuto incondizionato, nell’utopia di una “soluzione finale” che possa riscattare il senso della propria esistenza, profondamente sentita come inutile. Poco importa se tutto questo si nasconda sotto le spoglie di una insana ricerca del divertimento, dovuta forse ad una vita eccessivamente tranquilla. Il loro comportamento risponde ad una fondamentale funzione antropologica, legata al sacrificio, ma la possibilità di un’espiazione è illusoria, in quanto la loro violenza è figlia del sistema che comprende tutti gli altri, è per così dire ricompresa nel contesto di insensatezza che avvolge ogni singolo avvenimento. La ribellione di Eric e Alex è dunque strettamente compenetrata con la società del benessere in cui vivono. Sullo sfondo di un nichilismo incombente la ricerca istintiva di una relazione fondamentale con la morte, assente nella loro vita protetta, li spinge verso la follia di un omicidio plurimo. Le contingenze non costituiscono la causa delle loro azioni: la situazione vergognosa delle leggi sul mercato delle armi in America non spiega affatto ciò che compiono i due killer, così come non lo spiega la violenza del videogioco, o l’ammirazione di Alex per i nazisti. In questo senso il titolo Elephant (che tra le altre cose fa riferimento ad una parabola indiana) è rivelatore, perché indica non soltanto che non si può comprendere il tutto, l’elefante, a partire da una parte, un orecchio, la proboscide, etc. Indica invece che facendo questo tentativo si esprimono giudizi errati e fuorvianti sul fenomeno. Van Sant oppone intelligentemente ai luoghi comuni che si addensano nella radice della violenza in Alex, la figura di Eric, che poi è il cervello della strage: un ragazzo intelligente, che reputa un cretino chiunque ammiri cose come il nazismo, e soprattutto, che suona molto bene Beethoven. È un elemento molto profondo quest’ultimo, di derivazione quasi nietzscheana; dalle famose pagine musicali di Beethoven emerge la spettralità e l’odore del sangue, individuando l’umanità della violenza al fondo delle meravigliose costruzioni del pensiero.

L’abbandono dei bassifondi e delle condizioni di vita estreme non si traduce per l’autore in un guadagno. Da un certo punto di vista, anzi, sembra costituire una perdita, se confrontiamo la vitalità e la creatività dei protagonisti dei primi film con la passività degli ultimi. Anche Blake/Kurt Cobain, che pure è ispirato ad un personaggio del passato, risente della visione odierna dell’autore: anch’egli sperimenta sulla propria pelle un nichilismo violento al punto da portarlo al più completo estraniamento. Da sempre l’introversione era una caratteristica dei protagonisti, ma ora diventa una chiusura fondata sulla comprensione che nulla può avere più un senso. In questo orizzonte l’esperienza della morte perde qualunque valore in un certo senso formativo e diviene il gesto estremo, la chiusura del cerchio, perché la privazione del senso della morte stabilisce e ribadisce l’assoluta insensatezza del tutto, la vanità di ogni singolo atto. Nei film della trilogia la scena di morte conclusiva costituisce proprio questa definitiva conferma del nichilismo, un nichilismo che soltanto un giovane può sperimentare in tutta la sua tragicità. In questi lavori Van Sant è straordinario per la capacità di tradurre filmicamente questo nichilismo, conferendo ai suoi personaggi e allo spettatore con essi, una sorta di percezione rarefatta (con l’uso perfetto dello sfocato), uno stato di sospensione che ha come immediata conseguenza il distacco dalle cose, l’interruzione del fluire temporale. I tempi della narrazione sono diversi da quelli dei film precedenti, c’è una sensazione di immobilità, per quanto ci si accorga dopo un po’ che in realtà qualcosa sta scorrendo molto lentamente; non a caso l’atto del camminare è spesso al centro dell’immagine, essendo determinante in questo cinema che procede passo dopo passo, senza alterazioni di ritmo. Lo stesso meccanismo di frammentazione temporale, di andirivieni tra presente e passato, è del tutto diverso da ogni altro utilizzo dello stesso stratagemma, abusato, ad esempio, da registi come Iñarritu; qui è in gioco da un lato il flusso temporale interno alla coscienza, dall’altro la volontà di seguire e rispettare ogni individuo subordinando il meno possibile la narrazione alle logiche di sceneggiatura, in nome di un atteggiamento contemplativo che costituisce l’essenza del cinema di Van Sant. In Elephant ciò diviene la condizione di possibilità del film stesso, in cui l’autore esprime appieno la propria visione circa l’impossibilità di schematizzare la complessità del reale. A volte, infatti, il film diviene enigmatico: esemplare lo straordinario segmento dedicato a Benny, che procede misteriosamente in direzione degli assassini, anch’egli forse attratto dall’esperienza della morte improvvisamente piombata nella scuola, oppure insensatamente deciso ad avanzare controcorrente lungo i corridoi, nell’illusione presto smentita di poter essere utile a qualcuno o a qualcosa. La realtà quotidiana si muove sul filo del non senso, con esiti tragici, in modo ben più preoccupante rispetto a quanto si mostrava nei primi lavori; soltanto in apparenza il contesto odierno in cui vivono i giovani potrebbe sembrare meno inquietante. E proprio su questa sensazione apparente si concentra Paranoid Park, che se da un certo punto di vista è sicuramente un film meno radicale dei tre precedenti, da un altro registra una crescente estetizzazione (che può ricordare un autore assai diverso come Wong Kar-wai, il cui direttore della fotografia ha iniziato a lavorare con Van Sant) che non può essere interpretata come un artefatto fine a sé stesso. La sua forza sta nell’entrare in contrasto con la durezza della storia, esplicitando visivamente il conflitto tra l’estetismo del mondo giovanile (dal look curato di ragazzi e ragazze, fino alla bellezza delle evoluzioni degli skater) e la brutalità del caso e della morte. È questo contrasto ad annullare il protagonista, a renderlo di fatto affine ai personaggi che lo hanno preceduto; anche in questo caso l’esperienza della morte, posta all’inizio e non alla fine, fa sperimentare al ragazzo l’insensatezza del mondo quale forma attuale della dannazione: il tempo si ferma (come nella strepitosa scena della doccia) e rende pressoché impossibile una crescita o un’elaborazione dell’accaduto.

Lo scenario che oggi Gus Van Sant pone di fronte ai nostri occhi è molto diverso da quello descritto in passato, ed è evidente come ciò non sia dovuto solo a ragioni strettamente cinematografiche; tuttavia, una cifra essenziale del suo cinema è rimasta costante nel tempo, caratterizzandolo profondamente. Né la ricognizione degli strati più disagiati della società, né il riconoscimento della non vivibilità della realtà ordinaria hanno mai spinto il regista ad assumere posizioni moralistiche, a contestare le azioni dei suoi personaggi o ad esprimere critiche sociali o psicologiche verso i loro comportamenti. Anche grazie ad una concezione della regia fondata sulla ricettività creativa e sulla spontaneità, con ampi spazi lasciati, ad esempio, all’improvvisazione degli attori, il cinema di Van Sant è assolutamente privo di paternalismo: questo lo rende in assoluto, al giorno d’oggi, il miglior cinema dei giovani possibile. La sua attenta contemplazione prevede la sospensione del giudizio, come condizione necessaria dell’espressione di una verità non ancora impossibile, nonostante la legittimità del nichilismo. Il suo dire: “non è colpa tua!” non è una forma del perdono cristiano, ma una messa in discussione dell’accezione morale della colpa, che impedisce di indicare come forme del male i giovani assassini presenti nei suoi film. Non c’è pietà, non c’è spietatezza, né tantomeno, come allora si potrebbe concludere, indifferenza. Per eliminare dalla nostra prospettiva di spettatori sia le considerazioni morali, sia la sensazione di indifferenza, il cinema di Gus Van Sant obbliga ad un radicale esercizio contemplativo, in modo da poter guardare con occhi diversi agli eventi di un mondo complesso fino ai limiti dell’incomprensibile, anche se in questo mondo c’è un ragazzo che per scegliere chi uccidere intona (nel doppiaggio italiano) la filastrocca di ambarabà, ciccì e coccò, tre civette sul comò, che facevano l’amore con la figlia del dottore, il dottore si ammalò. Ambarabà. Ciccì. Coccò.



 


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