Il cinema di Alejandro Amenabar PDF 
di Lorenzo De Nicola   

Sicuramente, soltanto un esiguo numero di persone avrebbe scommesso che Alejandro Amenàbar - lo scalcinato studente dell'Università Complutense di Madrid - dopo aver abbandonato gli studi teorici per dedicarsi a tempo pieno alla pratica, sarebbe diventato in breve tempo una delle promesse più consistenti del cinema spagnolo. La sua carriera è stata folgorante e ora, all'età di ventinove anni (è nato a Santiago del Cile nel 1972), può vantare di essere uno dei registi più richiesti e ricercati del momento. Il suo esordio s'intitola Tesis (1995), il debutto sulla scena internazionale Abre los ojos (1997), il suo successo The Others (2001). Un cammino coerente, in cui si possono facilmente riscontrare le tappe di un'evoluzione precisa, la lucidità di perseguire un obiettivo.

Apri gli occhi! Sussurra una voce su sfondo nero, Apri gli occhi! Inizia così il secondo lungometraggio, quasi fosse un manifesto della sua poetica. L'intenzione è subito evidente. Amenàbar richiama il pubblico ad abbandonare le personali percezioni per lasciarsi trasportare all'interno del film/sogno/incubo che sta per cominciare. Non servono più le incisioni dei globi oculari, basta una semplice voce per comunicare che da quel momento in poi qualsiasi informazione messa in scena potrà essere oggetto di più interpretazioni in un gioco morboso e accattivante al tempo stesso.

Che la realtà non abbia alcun valore il regista l'aveva già dichiarato fin dalla sua opera prima. In Tesis, infatti, i ribaltamenti repentini, stereotipi insostituibili del thriller, vengono portati all'eccesso. La tensione si crea dall'effettiva confusione dei ruoli che s'instaura tra i personaggi. Tutti possono essere innocenti o colpevoli, dando vita a più forme di realtà che coesistono ed hanno un sapore squisitamente pirandelliano. Niente può essere dato per scontato perché nulla è scontato.

La classica struttura dell' equilibrio/disequilibrio/equilibrio finale, è stravolta e strapazzata al punto tale che l'happy ending nasconde i germi di qualcosa di oscuro che ha mutato per sempre lo spirito dei personaggi, la loro purezza, la loro consapevolezza. Il terrore angoscioso che attanaglia gli spiriti irrequieti di The Others nel momento in cui scoprono la loro condanna eterna non è dissimile dal salto nel vuoto di César (Eduardo Noriega), dalla presa di coscienza della dipendenza dall'immagine e dei suoi effetti da parte di Chema (Fele Martinez, alter ego fin troppo evidente del regista) e Angela (Ana Torrent). Ma se da un lato Amenàbar attacca il reale e le sue interpretazioni, dall'altro punta il dito anche contro la veridicità della diegesi.

La messa in scena è menzogna o, quantomeno, proiezione fittizia della realtà. Lo snuff movie, produzione con cui si scontra l'ingenua Angela, è l'esempio più concreto (proprio per la sua estrema ambiguità) attraverso cui il regista esprime i suoi dubbi. Infatti, se si devono considerare ricostruite quelle morti in diretta, allora siamo di fronte all'apice della finzione; al tempo stesso, l'eterno dubbio dell'esistenza di tali prodotti alimenta un alone mitico intorno ad essi tale da renderli ugualmente privi di consistenza. Questo valeva per Tesis, ma con Abre los ojos il regista compie lo scarto decisivo. Il suo discorso si sposta dal contenuto al linguaggio. L'assunto è il medesimo, ma la tecnica per affrontarlo cambia radicalmente. La scelta di frantumare lo svolgimento cronologico della narrazione intende offrire la rappresentazione della dimensione onirica del personaggio ma, al tempo stesso, è indubbia la volontà di decostruire l'oggetto filmico sin dalle sue fondamenta. Allo spettatore sono volontariamente sottratti gli strumenti per avanzare qualsiasi supposizione in uno degli esempi più estremi di focalizzazione interna. Se questo tipo di operazione è facilmente inscrivibile in una logica postmoderna, allo stesso modo si deve leggere la sua ultima fatica.

The Others riacquista una linearità nello svolgimento degli eventi, ma contemporaneamente viene minato proprio nella sua stessa produzione o pre-produzione che dir si voglia. Se si considera infatti The Others come il remake di Suspense (The Innocents, 1961) di Jack Clayton, è fin troppo chiara la speculazione operata dal regista. Da sempre si è abituati alle molteplici (e giustificate) concessioni autoriali che comportano la rielaborazione di un testo filmico preesistente. Rivisitazioni contenutistiche e formali fanno parte del processo, ma in questo caso stupiscono le modalità.

Lasciando da parte il discorso dell'adattamento dal romanzo di Henry James, Giro di vite - paradossalmente implicatovi solo per rimando - Amenàbar si dedica ad una nuova forma di sintesi. Cogliendo appieno l'atmosfera del film di Clayton, il regista l'adatta (non si potrebbe utilizzare altro termine!) alla sua epoca e - soprattutto - alla sua poetica. Il colpo di scena finale, anche se deve qualcosa al collega indiano M. Night Shyamalan, rientra nelle dinamiche messe in moto dal cileno fin dalla sua prima opera. Il gioco ammiccante tra la dimensione dei vivi e quella dei morti e, soprattutto, la totale identificazione spettatoriale con la seconda, rimanda alla lunga carrellata conclusiva di Tesis, in cui i malati sono trasformati in veri e propri zombie dalla visione del programma televisivo.

Allo steso modo, sempre per cogliere un parallelismo, sembrerebbe quasi che le figure mostruose che decoravano l'antro/abitazione di Chema abbiano preso vita scivolando nel buio della casa settecentesca di The Others. È l'oscurità il personaggio principale di questo film. Un nero che avvolge e schiaccia i personaggi. La notte è perenne; la luce (la vita o il cinema?) è scacciata da pesanti tendaggi; i pochi momenti in cui si può godere l'atmosfera del giorno, questa è contaminata da una pesante coltre di nebbia, ennesimo richiamo alle tematiche più classiche dei film horror (e Carpenter ne sa qualcosa!). È proprio il continuo tributo agli stilemi del cinema classico che crea ulteriore ambiguità nella scrittura di Amenàbar. The Others riesce a spaventare attraverso elementi talmente semplici da lasciare sbalorditi. Lo spettatore attento è in grado di conoscere cosa accadrà da lì a qualche momento, eppure - malgrado l'ovvietà insita in alcune soluzioni - non vengono assolutamente tradite la tensione e la suspense.

Nasce proprio dalla calcolata commistione tra classico e moderno la miscela esplosiva che connota le opere di questo nuovo talento. Un regista attento alle tematiche dei giorni nostri, come a quelle ancestrali del nostro passato. La paura di Grace (Nicole Kidman) e figli di fronte alla scoperta della loro nuova condizione (già precedentemente accennata) è la metafora angosciante e angosciosa del nostro tempo. Amenàbar non teme di affrontare, come già hanno fatto i suoi predecessori del cinema spagnolo, la questione religiosa riaprendo ed insistendo su argomenti che sembrano ormai desueti come il culto o la condizione della donna. Infatti, le eroine dei suoi film possiedono una forza sicuramente superiore a quelle dei loro accompagnatori. In tutte e tre le sue pellicole, la donna è la figura dominante, vittima innocente delle pulsioni e delle aggressioni maschili. Nonostante la sua filmografia sia ancora esile, Amenàbar si può già definire un autore a tutto tondo, figura chiave e promessa indiscussa della cinematografia contemporanea.

 


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