Heat - La sfida: gli Angeli decaduti di Mann - Michael Mann PDF 
di Domiziano Pontone   

La complessità espositiva, la densità della narrazione e la grande sensibilità stilistica fanno di Michael Mann uno dei più grandi registi viventi. Se Manhunter - Frammenti di un omicidio e L'ultimo dei Mohicani sono già due capolavori, è con Heat - La sfida che il regista supera le barriere del prodotto di alto livello, cesellando un lungometraggio che supera il confini del genere (il poliziesco) per farsi paradigma universale del cinema d'azione misto all'analisi interiore.

Anzitutto gli va dato atto di essere riuscito a far coesistere - per la prima volta, non considerando l'impossibilità logica di una simultaneità sul set de Il padrino - Parte II - due interpreti magnetici come Al Pacino e Robert De Niro. Alternando la vita professionale e privata di questi due protagonisti, Mann ritaglia, intorno alla sfida che li accomuna, una cornice ambientale complessa e frastagliata, ma tale da far aderire lo spettatore con un'intensità inusuale alla sorte del duo. L'immedesimazione si avvicenda tra il criminale solitario e impietoso e l'agente solingo e inesorabile.

La regia ha un respiro ampio e non si permette di minimizzare alcun particolare. Le quasi tre ore di pellicola passano in apnea e ogni singolo personaggio di contorno ha un suo perchè specifico e viene delineato con sintetica e sapiente precisione: quanto basta affinchè nessuna situazione abbia lo sgradevole retrogusto dell'ipertrofia rappresentativa scevra di sincerità. Mann guarda sempre alla vita, pur costringendola nella sua epica narrativa.
In una Los Angeles palpitante e protagonista - come quella resa dalle scenografie di Neil Spisak e dalle location prescelte - non c'è spazio per "Gli Angeli". Quelli che il film propone, che siano dalla parte della legge o contro di essa, sono decaduti: ognuno ha assunto un destino terreno e vedrà consumarsi il proprio non solo in base alle scelte adottate, ma anche secondo un piano preordinato. Tale amara consapevolezza è perfettamente assecondata dalla fotografia asciutta e netta di Dante Spinotti e dalla colonna sonora soffusa e puntuale di Elliot Goldenthal.

La potenza evocativa di Mann rende indimenticabili svariati passaggi (i "colpi", il dualismo degli antagonisti, il continuo gatto col topo, la violenza) e dietro la pellicola si evince l'innegabile partecipazione appassionata del cineasta. Egli sa che alla fine le sue due "creature" (è autore della sceneggiatura) dovranno confrontarsi per dar soddisfazione al Fato, ma cerca di rimandare e di dilatare il più possibile questo confronto tra i suoi Dioscuri, lasciando la costante sensazione di non aver deciso fino all'ultimo chi dei due resisterà all'altro.

Per riuscire a portare a termine quest'opera ciclopica, Mann ha avuto l'appoggio di Arnon Milchan, già produttore - basti per tutti gli altri - dell'ultimo capolavoro di Sergio Leone, C'era una volta in America. Per ordinare in maniera sciolta e intelligente il girato il filmmaker si è addirittura avvalso di quattro montatori: la pellicola supera infatti i 170 minuti, ma il ritmo impresso dal montaggio non permette distrazioni.
La preparazione di Mann è ibrida e di questa caratteristica si avvale il suo lavoro. Le sue prime esperienze nel mondo della celluloide sono infatti europee, mentre quelle statunitensi si riassumono, soprattutto, con la serie tv Miami Vice, la più convincente nel suo genere. Il cinema che Mann propone è dunque un incontro tra la sensibilità introspettiva del polar francese e la dimensione spettacolare della migliore tradizione americana (si pensi a Robert Aldrich, per esempio, e al suo mondo di falsi sconfitti e di pseudovincitori).

L'autore è, oltretutto, dotato di una padronanza del mezzo cinematografico assolutamente matura e varia: capita così che primi piani si alternino a campi lunghi o medi, piani sequenza si incrocino con una concatenazione delle immagini isterica, il teleobiettivo ceda il posto al grandangolare e la plongée alla camera a spalla.

Il parallelismo che governa l'evoluzione del racconto è evidente: entrambi i personaggi vanno a cena con le persone con le quali lavorano, perdono un amico durante la medesima rapina, hanno problemi a relazionarsi stabilmente con le donne, pongono il lavoro davanti a tutto. Tutto ruota intorno alla sorte del detective Hanna e del rapinatore McCauley: l'uno avrebbe potuto essere l'altro in un'altra vita, o magari anche nella stessa. Invece hanno optato - o ci ha pensato la Moira - per strade divergenti negli intenti (uno è un bandito, l'altro un membro della L.A.P.D.) e convergenti nella realtà effettiva (finiscono, per forza di cose, per contrapporsi), come due forze uguali e contrarie che si annullano. Si stimano, si rispettano, hanno un codice comportamentale ineccepibile anche nel perseverare negli errori: sono uomini a tutto tondo. Monomaniacali ma integerrimi dal loro punto di vista.
Heat - La sfida, inoltre, è anche un film recitato benissimo dalle seconde linee: accanto a Pacino e De Niro (doppiati magnificamente da Giannini e Amendola) si possono citare Val Kilmer, Jon Voight, Tom Sizemore, Diane Venora, Amy Brenneman, Wes Studi, Natalie Portman, Kevin Gage, Hank Azaria, Danny Trejo, William Fichtner, Ashley Judd, Mykelti Williamson, Tom Noonan, Dennis Haysbert. Un cast eccezionale, a sottolineare come nulla sia lasciato al caso. Riconoscimenti? Nessuno, naturalmente e per fortuna. Quando un film è troppo bello, difficilmente ottiene dei premi. Vince l'amarezza, la svalutazione della realtà, non esiste happy end: come fa a convincere i falsi esperti?

Mann è consapevole della dose di coraggio che ci vuole per portare a termine un siffatto film, di portata monumentale, e non scende a patti con nessuno. Lo fa durare quasi tre ore, non permette a De Niro e Pacino di incontrarsi sul set e non dà la soddisfazione di vedere un finale roseo. Non è il film del "come va a finire" ma del "perché va a finire così". Per questo va rivisto una volta all'anno.

Un cinema come quello di Heat ha il sapore dell'impresa e il profumo dell'irripetibilità. Oltretutto, quando un'opera esige molteplici visioni, non significa che sia incomprensibile, bensì che, accanto all'edonismo cinefilo celato dietro il ripetersi dello spettacolo, i piani di lettura sono così stratificati e profondi da riempire ogni volta lo sguardo e l'anima di chi assiste all'identica riproposizione della sfida.

 


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